10 fondamentali case-studies di psicologia
23 Novembre 2016 2017-01-05 0:0810 fondamentali case-studies di psicologia
I 10 personaggi di cui parleremo in questo articolo (“case-studies”) hanno avuto una grandissima influenza sulla psicologia.
Essi hanno consentito, con le loro storie, di approfondire e spesso dirimere alcuni grandi interrogativi in merito al funzionamento del cervello, al comportamento, alla personalità, all’identità, al dibattito natura vs. cultura, al rapporto mente-corpo e ad altre fondamentali questioni in psicologia.
Ciò che è particolarmente interessante è che molte delle storie di questi 10 persone continuano ad evolvere: con il passare del tempo, nuove prove vengono alla luce e nuove tecnologie divengono in grado di interpretare diversamente e comprendere sempre più accuratamente quanto accadde, e le conseguenti implicazioni.
1) Phineas Gage
Nel 1848, nel Vermont, un operaio di nome Phineas Gage si stava occupando di inserire una carica di esplosivo nel terreno per preparare la strada per una nuova linea ferroviaria, quando ebbe un terribile incidente. A causa dell’esplosione accidentale della polvere da sparo, il ferro di pigiatura che Gage stava utilizzando schizzò in aria e attraversò la parte anteriore del suo cranio, provocando un grave danno cerebrale che interessò i lobi frontali del suo cervello.

Sorprendentemente Phineas Gage sopravvisse all’incidente. Dopo pochi minuti era di nuovo cosciente e capace di parlare e dopo qualche settimana era già in grado di rialzarsi dal letto e camminare. Tuttavia, la sua personalità aveva subito una radicale traformazione, tanto che amici e familiari non lo riconoscevano più: era divenuto intrattabile, aggressivo, svolgiato e incline alla blasfemia.
Gage contruibuì alla conoscenza di quella che venne definita “sindrome frontale” una condizione in cui, a fronte di una lesione frontale del cervello (che preside diverse funzioni psichiche di regolazione), la persona diviene disinibita sul piano verbale e comportamentale, irosa e asociale, incapace di pianificare e di fare previsioni sulla base dei dati acquisiti e incline ad alterazione del tono dell’umore (sintomi che ritroviamo, appunto, anche nelle demenze frontali).
Tuttavia, negli ultimi anni c’è stata una rivalutazione della storia di Gage alla luce di nuove evidenze. Alcuni studi sostengono che la descrizione post-incidente di Gage poco collimase con la verità dei fatti, in quanto l’uomo fu poi capace di trovarsi e mantenere un lavoro come conduttore di diligenza. Inoltre, alcuni ricercatori ricostruirono tramite mezzi computerizzati la dinamica dell’incidente, sostenendo che il danno era limitato al lobo frontale sinistro, mentre una gran parte della corteccia frontale destra era rimasta intatta. Nuovi studi continuano a cercare la verità sulla vicenda di Gage.
Il cranio di Gage e il ferro che causò il trauma sono conservati nel museo della Harvard Medical School di Boston.
2) H.M.

Un altro caso emblematico nella storia della psicologia è quello di H.M.
Henry Gustav Molaison (conosciuto per anni come H.M. con lo scopo di proteggere la sua privacy) sviluppò una grave amnesia all’età di 27 anni, dopo aver subito un intervento al cervello al fine di intervenire su una grave forma di epilessia di cui aveva sofferto fin dall’infanzia.
La neurochirurgia degli anni ’50 tentava di curare alcuni disagi mentali rimuovendo parti del cervello o interrompendo le vie di connessione. L’intervento privò H.M., tra gli altri, dell’ippocampo in entrambi gli emisferi cerebrali: il risultato fu che non fu più in grado di memorizzare informazioni nella memoria a lungo termine.
H.M. fu oggetto di studio da oltre 100 psicologi e neuroscienziati e comparve in migliaia di pubblicazioni scientifiche; il suo caso aprì la strada alla comprensione delle basi cerebrali della memoria e, in particolare, al ruolo fondamentale svolto dall’ippocampo. Ai tempi, il caso destabilizzò i ricercatori, in quanto molti di loro credevano che la memoria fosse distribuita in tutta la corteccia cerebrale.
Oggi, l’eredità di Molaison vive: dopo la sua morte, avvenuta nel 2008, il suo cervello è stato donato al Brain Observatory dell’University of California a San Diego, dove è stato sezionato in quattromila fette di tessuto cerebrale che, fotografate ad alta definizione, sono state usate per ricostruire un modello in 3D dell’intero cervello. Inoltre, la sua vita è stata raccontata nel testo che la ricercatrice Suzanne Corkin ha scritto su di lui, “Prigioniero del presente”, edito in italia da Adelphi, in cui racconta la storia di quest’uomo e di ciò che ha insegnato al mondo.
3) Victor Leborgne (soprannominato “Tan”)

Il fatto che (nella maggior parte delle persone) la funzione del linguaggio sia assolta prevalentemente dalla corteccia frontale sinistra è oggi quasi di pubblico dominio, almeno tra gli studenti di psicologia. Tuttavia, nei primi decenni del XIX secolo, l’opinione comune era che la funzione del linguaggio (come quella memoria, vedi il caso di H.M.) fosse distribuita su tutto il cervello.
Un paziente che ha contribuito a cambiare questa concezione fu il francese Victor Leborgne, soprannominato “Tan” perché era l’unico suono che potesse pronunciare.

Nel 1861, all’età di 51 anni, Leborgne morì dopo vent’anni di ricovero in ospedale. Il neurologo Paul Broca, esaminando il cervello di Leborgne, notò una lesione nel suo lobo frontale sinistro, un segmento di tessuto cerebrale oggi noto come “area di Broca”.
Dato che Leborgne aveva difficoltà nell’elaborazione del linguaggio, ma non nella comprensione, Broca concluse che tale zona del cervello era responsabile della produzione del linguaggio, e condivise i suoi risultati con la comunità scientifica.
Per decenni, poco si è saputo su Leborgne oltre al suo importante contributo alla scienza. Tuttavia, in un articolo pubblicato nel 2013, Cezary Domanski dell’Università Maria Curie-Sklodowska (Polonia) ha portato alla luce nuovi dettagli biografici. Tra questi, vi è la possibilità che Leborgne mormorasse la parola “Tan” perché il suo luogo di nascita era Moret, sede di numerosi mulini che servivano per la produzione di tannino per la concia (in fancese “moulin a tàn”). Il cervello di Leborgne è conservato presso il Musée Dupuytren a Parigi.
4) Il ragazzo selvaggio di Aveyron
Il “ragazzo selvaggio dell’Aveyron” (chiamato Victor dal medico Jean-Marc Itard) fu trovato nel 1800, all’età di 11 o 12 anni, nei pressi della foresta di Aveyron, nel sud ovest della Francia, dove si pensa abbia vissuto “in natura” per molti anni. Il ragazzo era sudicio, non parlava (al massimo emetteva dei mugulii), defecava ovuque si trovasse, appariva sordo e in preda ad agiti aggressivi. Il suo comportamento sembrava motivato in gran parte dalla fame.
Victor fu portato a Parigi dove venne preso in carico dal dott. Jean Itard, che riteneva che la situazione del ragazzo non fosse dovuta ad un ritardo cognitivo o a una malattia mentale, ma piuttosto all’assenza di contatti con il mondo civile.

Itard cominciò dunque una missione finalizzata di educare il “ragazzo selvaggio”. Il lavoro del medico incontrò alterne fortune: Victor non imparò mai a parlare fluentemente, diventò in grado di scrivere alcune lettere, imparò a vestirsi, acquisì abitudini igieniche civili una certa comprensione molto basilare del linguaggio.
Nel 1989, la psicologia tedesca Uta Frith ha scritto un libro intitolato “L’autismo, spiegazione di un enigma”, con un capitolo dedicato a Victor in cui la dottoressa ipotizza che il ragazzo fosse affetto da autismo. Per quanto la verità su Victor sia ancora sconosciuta, il ragazzo selvaggio rappresenta un caso di grande valore nella ricerca in psicologia, relativo alla questione natura vs. cultura.
La storia di Victor ha ispirato il romanzo del 2004 “Wild Boy” ed è stato rappresentata nel film francese diretto da Francois Truffault “L’enfant sauvage”.
5) Kim Peek
Soprannominato ‘Kim-computer’ dai suoi amici, Kim Peek (morto nel 2010 all’età di 58 anni) fu l’uomo che ispirò Barry Lavinson nella premiatissima pellicola “Rain man – l’uomo della pioggia”, che narra la storia di un savant autistico interpretato da Dustin Hoffman (il termine savant indica una condizione in cui una persona presenta un ritardo congitivo anche grave, accanto allo sviluppo di un’abilità particolare e sopra la norma).
Prima di questo film, datato 1988, poche persone avevano sentito parlare di autismo, dunque a Kim Peek si può attribuire il grande merito di aver promosso, grazie alla pellicola, la divulgazione di questa condizione.

Probabilmente, tuttavia, il film ha anche contribuito a diffondere l’idea scorretta che avere dei “talenti speciali” sia un segno distintivo dell’autismo (in una scena importante della pellicola, il personaggio di Hoffman deduce in un istante il numero preciso di bastoncini da cocktail – 246 – che una cameriera fa cadere sul pavimento). Kim Peek era in realtà un savant non autistico, nato con anomalie cerebrali, tra cui una malformazione a livello del cervelletto e assenza del corpo calloso. Le sua abilità da savant erano davvero sorprendenti e includevano calcoli a mente estremamente complessi e una conoscenza enciclopedica di storia, letteratura, musica classica, codici di avviamento postale degli Stati Uniti e itinerari di viaggio. Inoltre, conosceva circa 12.000 libri a memoria, nonostante non fosse invece capace di fare alcune semplici azioni del quotidiano, come allacciarsi i bottoni della camicia.
6) Anna O.
Un caso fondamentale per la storia della Psicoanalisi Freudiana fu certamente quello di Anna O. (Bertha Pappenhein).
Anna O. era una ragazza ventunenne che, dopo la morte del padre, cominciò a soffrire di diversi sintomi riconducibili all’isteria (tra cui paralisi agli arti, danni visivi, tosse nervosa, nausea, idrofobia e in generale alterazioni di personalità). Il dottor Breuer, collega di Freud, si dedicò alla giovane attraverso il medico ipnotico. Dopo averla ipnotizzata, la faceva parlare e i racconti della giovane, intrisi di emozioni intollerabili ed inespresse connesse a ricordi rimossi, conducevano alla “catarsi” e risolvevano il sintomo.

Nonostante il successo del metodo, Breuer interruppe improvvisamente e sbrigativamente il trattamento, accortosi del rapporto che andava creandosi tra lui e Anna, spaventato dall’intenso movimento affettivo che si era instaurato tra di loro. L’interessamenteo di Freud nei confronti del caso condusse a ciò che, successivamente, verrà denominato “transfert”, ossia la riattualizzazione di relazioni passate nel rapporto con il terapeuta, che costituisce un fondamentale strumento di comprensione e cura nella Psicoanalisi.
Anna O. rappresenta una delle prime pazienti ad essere state trattate con la tecnica della talking cure, ossia la “cura di parole”.
Nell’ultima parte della sua vita, Bertha Pappenheim si dedicò alla giustizia sociale, scrisse testi sulla condizioni dei bambini, dei poveri e delle donne e fondò, tra l’altro, la federazione delle donne ebree. Morì nel 1936.
7) Kitty Genovese
Purtroppo, non è Kitty Genovese ad essere diventata uno dei classici casi di studio della psicologia, ma, piuttosto, il terribile destino che le è toccato.
Nel 1964 a New York, la donna stava rincasando dal lavoro a tarda notte quando fu aggredita ed uccisa da un uomo, Winston Mosely. Ciò che ha reso questa tragedia importante in psicologia è che essa ispirò la ricerca su quello che divenne noto come “bystander effect” (“effetto spettatore”), il fenomeno per il quale le persone hanno minori probabilità di prendersi delle responsabilità di una situazione (e, in questo caso, quindi intervenire) quando ritengono che siano presenti anche altri che potrebbero farlo al posto loro.

Secondo le ricostruzioni iniziali, furono 38 le persone testimoni almeno parziali dell’accaduto, ma nessuno era intervenuto per aiutare la donna, fornendo un terribile esempio del “bystander effect” nella vita reale.
In realtà, la vicenda non si esaurisce qui: la ricostruzione postuma ha messo in luce una situazione più complessa, ad esempio fu rilevalo che almeno due persone avevano cercato di chiamare aiuto, e che in realtà vi era stato solo un testimone al secondo e fatale attacco (quello che causò la morte della vittima).
Mentre il principio fondamentale dell’effetto bystander ha resistito alla prova del tempo, le sue dinamiche specifiche sono state riconsiderate negli studi psicologici moderni. Per esempio, vi sono prove che, in alcune situazioni, le persone hanno invece più probabilità di agire quando sono in presenza di altri (dunque quando sono parte di un gruppo più grande), ad esempio quando i membri del gruppo e la “vittima” sono parte della stessa categoria sociale (ad esempio, sono tutte donne).
8) Il “piccolo Albert”
“Piccolo Albert” era il soprannome che il pionieristico psicologo comportamentista John Watson diede ad un bambino di 10 mesi sul quale, assieme alla collega e futura moglie Rosalind Rayner, tentò sperimentalmente di instillare alcune paure attraverso un processo di condizionamento (qui l’esperimento nei dettagli).
La ricerca, condotta nel 1920 presso la John Watson University, è oggi considerata profondamente immorale e non sarebbe mai approvata negli ambienti universitari moderni.

L’interesse per il piccolo Albert Little Albert si è riacceso negli ultimi anni, quando una disputa accademica è scoppiata circa la vera identità di Albert. Un gruppo guidato da Hall Beck presso l’Università degli Appalachi ha annunciato nel 2011 che Little Albert era in realtà Douglas Merritte, il figlio di una balia della John Hopkins University. Secondo questo triste resoconto, il piccolo Albert aveva una patologia neurologica e, complice la natura non etica dell’esperimento di Watson, morì all’età di 6 anni di idrocefalo.
Tuttavia, questo ricostruzione dei fatti è stata sfidata nel 2014 da un gruppo di studiosi guidati da Russell Powell alla MacEwan University. I ricercatori hanno stabilito che più probabilmente il bambino era William Albert Barger, figlio di un’altra balia. All’inizio di quest’anno, un testo scritto da Richard Griggs ha soppesato tutte le prove e ha concluso che la storia Barger è la più credibile, il che significherebbe che Little Albert, di fatto, morì nel 2007 all’età di 87 anni.
9) Chris Sizemore

Chris Costner Sizemore fu una delle pazienti a cui si deve la conoscenza della controversa diagnosi di “disturbo di personalità multipla”, oggi conosciuto come “disturbo dissociativo dell’identità”. La donna presentava almeno tre distinte personalità: Eve White, Eve Black e Jane; ogni personalità era separata dall’altra e si comportava in modo completamente diverso.
Secondo alcuni, Sizemore sviluppò queste personalità come meccanismo di adattamento di fronte a esperienze fortmente traumatiche vissute durante l’infanzia.
Negli ultimi anni, Sizemore ha descritto come i suoi “alter” si siano integrati in un’unica personalità, nonostante percepisca alcuni aspetti del suo passato come appartenenti alle sue diverse personalità. Ad esempio, ha dichiarato che il marito era sposato con Eve White (dunque non con lei), e che Eve White è la madre della sua prima figlia.
Nel 1957 la storia della donna è stata trasformata in un film intitolato “I tre volti di Eva”, costruito sulla base del testo, con lo stesso nome, scritto dai suoi psichiatri (Corbett Thigpen e Hervey Cleckley) e che valse l’Oscar all’attrice Joanne Woodward, che interpretò Eva e le sue varie personalità. Nel 1977 Sizemore ha pubblicato la sua autobiografia intitolata “I’m Eve”.
10) David Reimer
L’ultimo celebre caso di cui ci occupiamo è quello di David Reimer.
David Reimer, nato Bruce, perse il suo pene durante un’operazione di circoncisione mal riuscita quando aveva solo 8 mesi. A seguito di questo evento, preoccupati per il futuro del figlio, i genitori lo portarono negli Usa dallo psicologo John Money.
Secondo Money l’identità sessuale dipendeva dal contesto, dunque poteva essere modificata attraverso opportuni interventi. In particolare, Money riteneva che bambini nati con organi sessuali non chiaramente definiti potessero essere reindirizzati verso l’uno o l’altro sesso, e ciò poteva essere fatto anche con David, al fine di garantire la felicità del bambino.

Bruce venne dunque sottoposto ad un trattamento chirugico e ormonale per traformarlo in una femmina, e fu allevato dai genitori come una bambina, Brenda. Money lo visitò una volta all’anno per circa 10 anni, in modo da monitorare lo sviluppo del “suo” caso, fino a quando comunicò il successo del suo esperimento e della sua teoria: Brenda aveva sviluppato un’identità femminile.
Tuttavia, David dichiarò a posteriori che non si era mai sentito una femmina e, a 13 anni, cominciò a avere pensieri suicidi e a rifiutarsi di vedere il medico. Quando i genitori, nel 1980, gli dissero la verità sul reindirizzamento sessuale, decise di riassumere la sua identità maschile, cambiando il suo nome in David, e fu sottoposto ad una serie di trattamenti chirurgici e ormonali.
In seguito, condusse una campagna contro il reindirizzamento di genere, al fine di salvare altri bambini dal destino che era toccato a lui.
La sua storia è stata raccontata del libro di John Colapintodi “As nature made him: the boy who was raised as a girl”, mai tradotto in italiano. Tragicamente, Reimer si tolse la vita nel 2004, all’età di 38 anni.
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Chi erano Phineas Gage, HM, Anna O., il piccolo Albert e il paziente “Tan”?
Per cosa sono ricordati David Reimer, Kim Peek, Chris Sizemore, Kitty Genovese e il ragazzo selvaggio dell’Averyon?
Le storie di tutti (o quasi tutti) questi 10 personaggi non possono che avere un posto speciale nelle memorie di tutti gli studenti di psicologia, visto che (insieme a molti altri) hanno contribuito a costruire ciò che oggi sappiamo su quell’affascinante e misterioso fenomeno che è la mente umana.
Buona lettura! 😉