Come scegliere la scuola di psicoterapia? – Intervista a Lorenzo Cionini

Come scegliere la scuola di psicoterapia? – Intervista a Lorenzo Cionini
Lorenzo Cionini è uno psicologo e psicoterapeuta. Laureato in pedagogia presso l’Università di Firenze e specializzato in psicologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena.
E’ stato direttore del Centro di Orientamento della Camera di Commercio di Pistoia, Presidente della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale, coordinatore del Collegio dei Probi Viri della stessa, membro del Comitato Direttivo dell’Associazione Italiana di Psicologia e di Psicoterapia Costruttivista e presidente della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia.
È membro dei Comitati Scientifici delle riviste: “Psicobiettivo”, “Acta Psicologica”, “Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale”, “Quaderni di Psicoterapia Cognitiva”, “Psicopatologia Cognitiva” e “Psicopatologia Clinica”. È co – direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva ad Indirizzo Costruttivista di Firenze, Padova e Livorno (riconosciuta dal MURST).
Ha insegnato psicoterapia alla Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena e della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze.
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Indice e minutaggio degli argomenti affrontati nel video
00:00 Introduzione
01:35 Scuole di psicoterapia: come fare una buona scelta.
06:45 I principali modelli presenti in Modelli di Psicoterapia
11:15 Psicologo, psicoterapeuta e counselor
14:46 Efficacia degli approcci e importanza del modello per gli sbocchi lavorativi
16:55 Lavoro e modello di appartenenza e scuole di psicoterapie integrate/ diversi tipi di integrazione
18:33 Integrazione dei modelli: una questione controversa
22:00 Integrazione assimilativa
24:28 Fattori specifici e aspecifici: è davvero una dicotomia?
27:50 Scegliere la propria strada: l’esempio di Lorenzo Cionini
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Sbobinatura dell’intervista
Luca Mazzucchelli: Un saluto a tutti da Luca Mazzucchelli oggi parleremo di come scegliere la scuola di psicoterapia più adatta alle diverse esigenze dello psicologo. E’ un tema che tratterò insieme al professor Lorenzo Cionini, dell’Università degli Studi di Firenze che è direttore insieme a Gabriele Chiari del Centro Studi di Psicoterapia Cognitiva, una scuola ad orientamento costruttivista.
Sono contento di parlarne con Lorenzo non solo perché è stato Presidente della federazione italiana delle associazioni di psicoterapia, ma anche perché è autore di un libro che è un importante ausilio nelle scelte che lo psicologo deve fare circa la strada da intraprendere come specializzazione. Il libro si intitola Modelli di psicoterapia e sono contento che oggi Lorenzo tu sia qui con me, grazie per aver accettato l’invito.
LC: Grazie a te.
Scuole di psicoterapia: come fare una buona scelta.
LM: La scelta della scuola di psicoterapia per un giovane psicologo è un evento vissuto raramente con serenità, nel senso che viene sempre visto come una scelta di campo. Quanto è veramente importante per un giovane psicologo scegliere la scuola giusta per potersi formare e accedere al mondo del lavoro dopo l’università?
LC: Io direi tantissimo. Uso una metafora spesso anche a lezione con i miei studenti, l’importante è capire qual è il vestito che ti sta bene addosso rispetto ai diversi modelli di psicoterapia. La preferenza e la scelta di un modello piuttosto che un altro dovrebbe essere fatto in funzione del fatto che io sento che quel mio modo di vedere il mondo da una parte e poter lavorare in termini clinici e terapeutici dall’altra mi corrisponde rispetto al mio modo di sentire e pensare di pormi in relazione con l’altro.
Il problema è com’è che uno studente o un neolaureato può fare questo, nel senso che dipende un po’ dalle occasioni che ha avuto: o all’università ha avuto un corso, come per esempio quello che tengo io a Firenze, dove si passano in rassegna e si cerca di vedere le caratteristiche dei diversi modelli o deve arrangiarsi un po’ da solo rispetto a questo. Il libro che tu introducevi all’inizio [Modelli di psicoterapia] può essere un’ occasione, è un libro abbastanza corposo di definizioni…
LM: Completo, diciamo completo…
LC: Esatto, poi vediamo alcune cose più nello specifico.
Un’altra modalità è anche andare agli open day, tutte le scuole di tutti gli orientamenti fanno giornate di presentazione della scuola che dovrebbero essere anche la presentazione dei modelli di ciascun orientamento, questa potrebbe essere un’altra modalità e occasione per incominciare a pensare. Questo quindi il primo punto, quanto questo vestito me lo sento addosso.
Poi c’è un altro problema che non è solo quello del modello, ma anche quello di scegliere la scuola. Da questo punto di vista un suggerimento che mi sentirei di dare è quello di valutare la scuola rispetto a diversi parametri, lasciando perdere alcune scelte miracolistiche che talvolta, non tutte non spessissimo, ma talvolta vengono fatte… e anche un modo che penso possa essere molto utile è chiedere l’esperienza agli allievi che la stanno frequentando, anche se un limite di questo è che poi ogni scuola ha una fidelizzazione dei propri studenti, tendenzialmente, però non sempre è così.
E poi cercare di capire come si svolge la formazione, quali sono i criteri della formazione in psicoterapia, che perlomeno a mio avviso credo dovrebbe essere una formazione basata soprattutto sulla pratica e anche in relazione al tipo di modello una formazione sul piano personale, ci sono molti modi di fare formazione personale, le diverse scuole ne utilizzano vari in funzione dei propri presupposti e delle proprie caratteristiche.
Bisogna guardare un po’ meno a certi aspetti che invece a volte vengono considerati come l’automatismo della specializzazione nei quattro anni, che è comprensibile, è uno strumento utile però insomma non sempre è così come pure il prezzo studiarlo bene, a volte si nascondono in un prezzo apparentemente basso altre voci diverse.
LM: Ad esempio la formazione personale che tu citavi prima in alcune scuole spesso è scorporata, anche giustamente però bisogna informarsi, sennò si rischia di fare una scelta sbagliata.
LC: Ognuno giustamente fa le proprie scelte in base ai propri parametri però è bene aver chiaro cosa si va a trovare. Questi sono un po’ i criteri fondamentali, il punto grosso è che essendo tanti i modelli e molto diversi fra loro e non solo, anche all’interno dei macro-modelli ci son delle differenze molto significative: la psicoanalisi può essere un esempio per tutti, è un’analisi ma bisogna definire di che tipo è, ma anche la terapia cognitiva… tutti i modelli in realtà hanno molte varianti interne, quindi entrare in questo campo non è sicuramente facile, richiede un certo sforzo da parte dell’allievo che voglia scegliere la scuola un po’ perché vicina a casa e un po’ per altri motivi…
I principali modelli presenti in Modelli di Psicoterapia
LM: Certo, il criterio della geo – localizzazione… Comunque mi sembra giusto quello che tu dici, iniziare a frequentare questi pensatori, leggendo i libri, frequentando gli open day, parlando con gli allievi o gli ex allievi. In effetti pensandoci con il senno di poi molte di queste cose le ho fatte anche io sulla mia pelle e grazie a questo sono riuscito sicuramente a chiarirmi le idee.
Senti Lorenzo tu dicevi che in effetti il panorama delle varie scuole di psicoterapia è veramente vasto, all’interno delle principali correnti vi sono tutta una serie di segmentazioni che spesso sono anche differenze determinanti. So che non è semplice farlo in breve tempo, però puoi indicarci quelle che sono le principali aree che tu hai pensato di dover prendere in considerazione anche scrivendo il tuo libro?
LC: Nel libro sono sei i modelli presi in considerazione: la psicoanalisi, la terapia cognitivo – comportamentale e la terapia cognitiva standard, poi il mio approccio che si differenzia, anche se questa è una cosa che talvolta viene un po’ confusa, o non è molto nota diciamo, ossia la terapia cognitiva di impostazione costruttivista che è molto diversa dall’ottica cognitiva standard, poi la terapia centrata sulla persona e sul cliente, cioè l’ottica di Carl Rogers, la terapia della Gestalt e la terapia familiare in ottica sistemica.
Questi sono i sei modelli presi in considerazione.
Questo libro lo avevo pubblicato 16/17 anni fa un altro libro simile sempre per la Carocci, un libro molto diverso da quello che esce ora.
Comunque una caratteristica importante di questo libro è il fatto che tutti i sei autori che hanno curato ciascuno dei capitoli, hanno accolto il mio invito di organizzare la propria esposizione su una scaletta che io gli proponevo.
Questo rende molto più paragonabili gli approcci fra di loro, poi è evidente che ogni autore ha sviluppato un po’ di più un paragrafo rispetto ad un altro, o la centralità di un certo argomento nel proprio modello. Comunque è presente questo quadro complessivo di tutti gli approcci.
C’è una parte teorica abbondante: i presupposti, il modo di eseguire la terapia, il concetto di cambiamento, come ci si propone di raggiungerlo e così via, ma non c’è solo questo, alla fine ci sono una o più esemplificazioni pratiche: alcuni autori hanno deciso proprio di riportare una trascrizione di un pezzo o due di seduta, oppure la descrizione di un caso clinico in modo che sia possibile comparare quella che è la teoria, cioè cosa si dice che si fa, e poi un esempio di cose fatte effettivamente, quindi anche da questo punto di vista non sempre c’è una piena coerenza per tutti, non è una critica a nessuno in particolare, tutti noi in qualche modo rischiamo di affermare determinate cose e poi talvolta di interpretarle in modo un po’ più particolare.
Poi altre due parti interessanti sono l’apertura e la chiusura del libro e il primo capitolo proprio dedicato alla psicoterapia che cerca di riassumere aldilà dei modelli alcune delle tematiche fondamentali della psicoterapia quindi la verifica del programma dell’ortodossia dell’eclettismo, le caratteristiche comuni di qualsiasi terapia, la distinzione fra psicoterapia, counseling e sostegno.
Psicologo, psicoterapeuta e counselor
LM: Su questa ti devo fare una domanda, perché questo è un punto che anche a me chiedono in tanti: secondo te si riesce a rispondere alla domanda cosa può fare lo psicologo, cosa un terapeuta, cosa un counselor, tu hai una linea guida per riuscire a demarcare i confini?
LC: Si, ho una linea guida, che è appunto raccontata nel libro, uso un po’ una metafora che forse può essere utile utilizzare: il counseling lo possiamo paragonare allo scioglimento di un nodo all’interno di una matassa, un nodo che ha caratteristiche attuali, di quel preciso momento, urgenti e concrete, quindi la persona chiede aiuto allo psicologo, che non significa chiedere un consiglio, ma un aiuto nell’affrontare quella problematica specifica, in quel momento, non una problematica che ha a che vedere con la persona nel suo complesso. La psicoterapia lavora su una matassa con una serie di nodi, che devono essere visti e poi si può cercare di scioglierli nella modalità giusta. Fra counseling e psicoterapia c’è un problema di tempi diversi, c’è un problema di focalizzazione su un aspetto o sulla persona.
LM: Non sul qui ed ora, ma su un aspetto o sulla totalità della persona?
LC: Si, su un aspetto della persona, che però necessariamente è anche parte del qui ed ora; se il focus fosse su una persona, allora sarebbe importante considerare i vari tipi di approcci in psicoterapia, il modo in cui vengono attuati, presente e passato; su questo i diversi approcci si muovono in modo diverso, questo fa parte della differenza fra le psicoterapie. C’è il problema dell’ortodossia, dell’eclettismo, dei diversi modi di verifica dell’efficacia degli esiti della psicoterapia, è una sintesi… ci sono volumi ampissimi che parlano di questa cosa.
In piccolo ho cercato di riassumere un po’ queste tematiche, visto che sono un cavallo di battaglia molto presente soprattutto da parte di molti approcci oggi, diverse modalità per poter dire e sostenere che una psicoterapia funziona o no, non ci sono soltanto gli EST, empirical support treatment, le cosiddette tecniche efficaci, molto care soprattutto agli psicoterapeuti cognitivo – comportamentali. Ci sono vari tipi di modalità che si possono applicare anche a terapie con caratteristiche diverse rispetto a quelle focalizzate, come può essere ad esempio l’intervento di tipo cognitivo – comportamentale.
Poi c’è un ultimo capitolo sulla formazione, sui criteri della formazione in generale, scritto da tre dei membri della penultima commissione ministeriale che si è occupata del riconoscimento delle scuole private, del MIUR.
Efficacia degli approcci e importanza del modello per gli sbocchi lavorativi
LM: A proposito dell’efficacia dei diversi approcci, perché molti spesso mi chiedono “ma secondo te questo approccio è efficace, mi hanno detto che questo non funziona…” tu che hai fatto anche ricerche a questo proposito cosa ci puoi dire?
LC: Il punto fondamentale è cosa si intende per efficaci. Perché se per efficacia si intende, come spesso si intende almeno da alcuni approcci, semplicemente la scomparsa o riduzione dei sintomi va benissimo, ma è un modo di definire l’efficacia.
Altri modelli si rivolgono più ad un cambiamento di altro tipo, un cambiamento che io definisco più nucleare, più identitario, quindi richiede tempi più lunghi, richiede anche una modalità di approccio che non è basato esclusivamente su due tecniche e richiede appunto una modalità di verifica del risultato totalmente diversa e si va su quanto la persona si sente cambiata, quanto certi aspetti nucleari sono cambiati aldilà del cambiamento del sintomo. Lo faccio solo come esempio e non è ovviamente l’unico approccio che si propone questo, ma nella mia esperienza come modo di lavorare di solito il cambiamento sintomatico è veramente molto variabile a seconda del tipo di sintomatologia, non si può generalizzare, avviene in tempi relativamente brevi, ma le terapie vanno avanti ancora per tempi assai più lunghi proponendosi un obiettivo di tipo diverso.
LM: Cioè il guarire non è semplicemente togliere il sintomo…
LC: Il guarire non vuol dire esclusivamente togliere il sintomo.
LM: Una delle domande che mi rivolgono spesso i giovani colleghi che sono interessati sia all’aspetto di come il modello risuona in loro ma anche all’ambito occupazionale, mi chiedono se ci siano differenze nelle possibilità di trovare lavoro. Io solitamente a questa domanda rispondo sempre, non so se tu sei d’accordo con me però ci confrontiamo, che dipende più dal collega come è in grado di costruire una rete, di lavorare bene, di promuoversi attraverso anche la propria capacità di essere terapeuta. Secondo me sono più importanti questi aspetti che altri legati principalmente al modello, però tu cosa ne pensi?
LC: Sono perfettamente d’accordo con quello che hai detto, non credo che scegliere un modello piuttosto che un altro da questo punto di vista abbia di per sé delle grosse differenze, fatta eccezione forse per il modello psicoanalitico classico, poi ci sono molti altri modi di articolare la psicoanalisi anche teoricamente, ma se si comincia a pensare a tre sedute alla settimana è chiaro che li entra in gioco anche un aspetto economico evidente, però credo che siano ormai pochi…
LM: I sopravvissuti…
LC: Quindi se escludiamo questo tipo di aspetto sono assolutamente d’accordo con quello che dici!
Integrazione fra modelli: una questione controversa
LM: Il punto dell’integrazione tra diversi approcci in psicoterapia: te lo chiedo perché sono sempre di più le scuole di psicoterapia che stanno nascendo a matrice integrata.
Io vivo a Milano e in Lombardia ce ne sono diverse e un po’ perché, in effetti, è un’esigenza anche che in molti sentono, da una parte la difficoltà di appartenere ad un solo modello e dall’altra la curiosità di aprirsi alle molteplici facce della psicoterapia. Tu personalmente come vedi questa cosa? Una cosa fattibile o un qualcosa che rischia di portarci a saper fare tante cose, ma nessuna bene?
LC: Cerco di sintetizzare la risposta perché non è linearissima, è uno dei temi che affronto nel primo capitolo del libro, però una piccola premessa ci vuole.
Integrazione vuol dire tutto e niente ci sono diversi tipi di integrazione: c’è un’integrazione di tipo eclettico, un’ integrazione tecnica di chi pensa che sia possibile e utile mettere insieme tecniche psicoanalitiche, comportamentali, gestaltiche e altre ancora, c’è un’integrazione cosiddetta meta – teorica che viene seguita da chi ritiene di poter fare un modello che superi tutti i modelli, che mi sembra una bella utopia tanto per dirlo subito, se ci fosse qualcuno in grado di farlo ben venga, ma non mi sembra che ancora di Leonardo da Vinci nel nostro campo ne siano comparsi, e infine c’è un’integrazione di tipo assimilativo.
Lasciando perdere la meta–teorica, la differenza fondamentale fra quella di tipo eclettico e l’integrazione assimilativa è molto grossa: da un lato si parte dall’idea di prendere delle tecniche e di metterle insieme, ad esempio usare la tecnica delle “due sedie” della Gestalt piuttosto che fare altro e questo io non lo vedo per niente bene, non lo vedo per niente bene perché concordo con Jeremy Safran sul fatto che non si può parlare di una tecnica se tolta dal proprio contesto teorico – culturale.
Esiste un contestualismo: ogni tecnica ha una sua logica, una sua sostanzialità all’interno di un modello, di un contesto teorico, all’interno della quale è stata teorizzata, costruita e così via. Mettere insieme la tecnica di un modello, con la tecnica di un altro, così semplicemente per sommatoria a mio avviso non la vedo una buona soluzione, una buona idea che rischia di creare grande confusione anche sul piano della relazione terapeutica che a mio avviso è fondamentale. Diverso è il discorso dell’integrazione assimilativa, io nel libro presentando il mio modello affermo che esso è un modello che ha seguito negli anni l’integrazione di tipo assimilativo, ma l’etichetta è una.
L’integrazione assimilativa
LC: Che significa integrazione assimilativa? Significa partire da un modello con certi parametri epistemologici e teorici di fondo, dopodiché se io mi affaccio a qualche cosa di diverso come nel corso degli anni ho fatto e vedo che esiste un certo modo di lavorare all’interno di un altro modello che può piacere, perché lo sento vicino o perché forse viene incontro a certi gusti che io sento nel mio modo di lavorare, allora lo posso assumere purché questa assunzione che implica necessariamente la trasformazione della procedura di una tecnica sia resa coerente con il modello di fondo, che deve rimanere una cornice unitaria che non cambia.
Dopodiché io posso assimilare all’interno di questo modello procedure che derivano da altri modelli. Per fare un esempio io uso una tecnica simile alla tecnica delle “due sedie” gestaltica, ma sicuramente non è la stessa cosa fatto da me o da un gestaltista, perché fatta da me viene dentro a certi presupposti che sono miei e sono diversi da quelli dei gestaltisti, quindi è più uno spunto. Non definirei mai il mio modello come integrato, nonostante sia consapevole di aver fatto questo percorso nel corso degli anni, cioè di integrare all’interno del mio modello anche certi aspetti che derivano per certi versi dalla psicanalisi relazionale, per altri versi dalla Gestalt, o altri modelli.
LM: Una casa madre all’interno della quale riconoscersi e poi alcune incursioni in aree limitrofe e spingendosi un po’ altrove. Però si parte da delle radici salde.
LC: Delle radici salde e la consapevolezza che nel momento in cui tu integri una procedura all’interno del tuo modello devi verificare se questa procedura è coerente con i principi. Non lo può essere presa così, quindi la devi in qualche modo adattare al contenitore e necessariamente trasformarla.
Fattori specifici e aspecifici: è davvero una dicotomia?
LM: Volevo farti una domanda sulla famosa diatriba fra fattori specifici e fattori aspecifici nell’efficacia della psicoterapia. Perché te la faccio? Perché stiamo parlando della diversità fra i vari approcci psicoterapeutici. Ci sono tutta una serie di studi che dicono, correggimi se sbaglio, che in fin dei conti a facilitare il cambiamento nei nostri clienti spesso sono i fattori aspecifici, ossia i fattori legati più al tipo di relazione che si instaura tra le persone. Tu come ti orienti tra queste due polarità?
LC: Fattori aspecifici, dunque… Mi sembra difficile considerare l’esperienza relazionale della coppia psicoterapeuta–paziente come un fattore aspecifico, anche perché ritengo sia il punto fondamentale del cambiamento. Il fatto che all’interno della relazione, detto in termini fenomenologici del noi della relazione, la persona riesce a fare esperienze relazionali di tipo diverso.
Non riesco proprio a chiamarlo fattore aspecifico, perché lo considero proprio uno dei fattori fondamentali del cambiamento. E’ chiaro che ogni terapeuta e ogni modello terapeutico usano più o meno questo aspetto e anche in maniera diversa. Faccio un piccolissimo passo indietro per rispondere a questa domanda, un’altra cosa molto interessante del libro a mio avviso è vedere come alcuni parametri anche teorici ricorrono in maniera molto simile all’interno di diversi approcci che rimangono diversi, però ad esempio la centralità dell’esperienza relazionale in atto, il concetto di implicito ed esplicito, il fatto che la realtà non sia un dato definibile a priori, ma che ognuno di noi in qualche modo ricostruisce la propria realtà.
Ritroviamo queste cose in tutti o quasi tutti i modelli, anche se per carità in modi diversi, ma con una base comune, quindi che vuol dire fattore aspecifico?
LM: Certo, è un bel punto. Tu dici quindi che la dicotomia tra tecniche e relazione regge fino ad un certo punto. Sono tutti strumenti, alcuni più importanti di altri e la relazione è sicuramente il principale che il terapeuta utilizza, che poi vengono utilizzati per far leva nel processo di cambiamento.
LC: Assolutamente, qualcuno può far riferimento più alle tecniche, qualcun altro più alla relazione, però credo che la tecnica senza relazione… mah!
Scegliere la propria strada: l’esempio di Lorenzo Cionini
LM: Un’ultimissima domanda: tu come hai fatto a scegliere la tua strada, nell’ambito della psicoterapia?
LC: E’ una domandona! Io ho iniziato negli anni ’70 come terapeuta comportamentista DOC e mi ritrovo ora ad aver definito un approccio, un modello teorico che per certi versi rientra sempre nel cognitivismo, ma un cognitivismo costruttivista. Io mi sento molto più vicino alla loro fenomenologia o agli psicoanalisti di stampo relazionale… Daniel Sterne il suo gruppo tanto per dirne uno.
Nel corso degli anni ho cercato di imparare dai miei pazienti, ho cercato di imparare dai problemi che mi ponevano, in certi momenti i muri contro i quali mi sentivo di andare a cozzare nel momento in cui si cercava di fare un certo tipo di lavoro e mi rendevo conto che non riuscivo a farlo.
Ho incominciato a muovermi, ad esplorare e poi è nato il mio interesse per tutti gli altri modelli. Esplorare, ma anche fare esperienze personali in ottiche diverse e cercare di portare avanti quel tipo di processo di assimilazione di cui parlavamo prima. Son partito da un punto e ora mi sento agli antipodi!
LM: E chissà fra qualche anno!
LC: Si, chissà fra qualche anno! Se devo dire cinque anni fa, piuttosto che dieci lavoravo in modo diverso da come lavoro ora. Questa forse potrebbe essere un’ultima cosa importante da dire ai giovani terapeuti, non pensate di imparare da una scuola ad essere terapeuti formati, non pensate che si può imparare ad essere terapeuti e poi ci si ferma li, non siamo dei meccanici della serie “ si smonta questo e va lì” è qualcosa di importante che ciascuno cresca e modifichi in base all’esperienza, non è uno slogan vuoto, rispetto a quello che i pazienti insegnano, perché se riesci a lavorarci bene insieme ti fanno capire come funzionano certe modalità di essere, quindi io ho imparato tantissimo dai miei pazienti, e anche dai miei allievi, è chiaro che poi c’è molto lavoro personale.
LM: Lorenzo io ti ringrazio molto per questa testimonianza e per il tempo che ci hai dedicato. Aspetto i commenti di chi vedrà questo video e magari riusciremo a riaggiornarci e a fare una seconda puntata ok?
LC: Certo va bene, grazie anche a te
LM: Ciao Lorenzo