√ Depressione e psicofarmaci
Depressione e psicofarmaci
Vorrei oggi affrontare il tema dell’efficacia degli antidepressivi, argomento del quale molto si è discusso negli ultimi anni e al cui riguardo viene prodotto un numero sempre crescente di studi che impongono alcune riflessioni interessanti. L’idea che la depressione sia un disequilibrio biochimico legato al cervello generato da un errore endogeno nei neurotrasmettitori della serotonina è stata a lungo accreditata nella letteratura scientifica.
Benché già alla fine degli anni 90 iniziassero ad esserci alcune voci dissenzienti rispetto a questo assunto, sponsorizzato soprattutto dalla cosiddetta psichiatria biologica, erano tutto sommato personalità marginali ad opporsi a questa visione dogmatica, che faticavano a farsi largo nel panorama di allora.
E’ a partire dal 2000 che, soprattutto negli Stati Uniti, la situazione inizia a modificarsi nettamente: la letteratura critica relativa all’utilizzo dei farmaci nella cura della depressione cresce a livello esponenziale, diffondendosi capillarmente, senza alcun segnale d’ arresto.
Questa crescente corrente culturale, in estrema sintesi, sostiene la tesi che ci sia stata una grande campagna di marketing determinata dalle case farmaceutiche, le quali avrebbero sostenuto, senza avere dati scientifici a loro supporto, l’idea di depressione quale squilibrio biochimico determinato da una carenza di serotonina.
Sono, in effetti, diversi i libri e gli articoli che evidenziano la discrasia tra ciò che è stato detto dalle case farmaceutiche e i dati disponibili a sostegno delle loro teorie.
Già dagli anni 80 Mc Cure (e altri studiosi poi confermarono le sue intuizioni nel 2005 e 2007) studiando le scimmie Velvet, mise a fuoco un dato che incuriosisce: le scimmie sono organizzate secondo una gerarchia con un capo dominante e le altre in posizioni inferiori. In particolare le scimmie dominanti mostrano quantitativi di serotonina maggiore rispetto alle altre. Se tuttavia le scimmie dominanti vengono allontanate dal gruppo, in queste ultime il livello di serotonina cala, mentre nel gruppo “orfano” del leader si costruisce una nuova gerarchia con un nuovo capo, nel quale il livello di serotonina da basso si alza improvvisamente: i livelli di serotonina cambiano in base allo status gerarchico dei primati nel loro contesto, non per motivi interni all’individuo ma in risposta alle interazione con l’ambiente e con gli altri personaggi del contesto di vita.
Un secondo punto oggetto di grandi contestazioni è riferito al DSM, che è il manuale dei disturbi psichiatrici utilizzato per diagnosticare le problematiche che affliggono una persona, e impostarne pertanto la terapia farmacologica. Questo manuale è soggetto a continue revisioni nelle quali si aggiornano le diverse psicopatologie, se ne rivedono i criteri di inclusione, aggiungendo nuove forme di psicopatologie emergenti o eliminandone altre se ormai superate. A partire dalla sua terza edizione, il DSM presenta una ridefinizione dei criteri diagnostici necessari della depressione, per cui i confini di cosa sia depressione e cosa no diventano molto laschi, rendendo complesso distinguere la normale tristezza da un livello patologico di depressione. Questo criterio diagnostico, tra le altre cose, ha portato un danno anche alla stessa psichiatria biologica, mettendo in un calderone unico persone tristi e depresse. Ciò che una ricerca conferma,un’altra lo disconferma: se non si è in grado di discriminare le due differenti categorie nel campione, infatti, si può dire tutto e il suo contrario.
Sembra quasi che nessuno sia esente da questa psicopatologia e l’unico motivo che non giustifichi tale diagnosi è sostanzialmente la morte di una persona cara. Lo stesso Robert Spitzer, presidente del gruppo che ha redatto il DSM 3 di cui ho parlato poco sopra, ha poi curato la prefazione di un testo molto critico nei confronti delle case farmaceutiche (vedi la bibliografia in fondo a questo articolo) ammettendo gli errori commessi e dichiarando la necessità di rivedere i criteri diagnostici della depressione.
I criteri così rivisitati hanno portato a un uso spropositato dei farmaci serotoninergici, incrementandone l’utilizzo del 300%: dopo gli antinfiammatori sono i farmaci più usati, prescritti da psichiatri e medici di base (si è calcolato che su 1000 pazienti di un medico di base 310 hanno come prescrizione un antidepressivo).
La casa farmaceutica produttrice del Prozac è oggi è accusata di omicidio dei pazienti (il farmaco produrrebbe il suicidio) e in questi processi è spesso consulente il segretario della società britannica di farmacologia (uno dei molti pentiti in questo campo). Una possibile spiegazione clinica del perché gli antidepressivi possano causare il suicidio esiste, e sembra anche estremamente plausibile. La depressione (quella “vera” e patologica, non la tristezza) contiene una grande funzione adattiva: impedendo ai depressi il movimento, li inchioda al letto e non permette loro di alzarsi proteggendoli dal fare male a se stessi o agli altri. La grande depressione porta la persona piena di energie a crollare improvvisamente a terra immobilizzato: l’imprenditore che spaccava il ferro con la forza di volontà, diventa una larva che piange come un disperato.
Solitamente i depressi si tolgono la vita o prima o dopo la crisi, quando cioè stanno meglio, perché non si è in grado di pianificare un suicidio quando si è disperati. Il valore adattivo della grande depressione, insomma, sarebbe che non ci si uccide e non si uccidono gli altri.
I serotoninergici, che sono farmaci attivanti, possono secondo alcuni essere anche considerati pericolosi perché privano il sintomo del suo valore salvifico e adattivo, un po’ come se si tolgono le stampelle prima che la frattura si sia ricomposta: si cade a terra perché non si è ancora in grado di camminare autonomamente.
La grande campagna pubblicitaria in favore della depressione e degli antidepressivi ha provocato uno scossone tale da riscontrare anche un cambiamento dal punto di vista linguistico: non si parla quasi più di tristezza, ma di depressione. Si è capovolto il paradigma e, pertanto, se sei triste, se tuo marito non ne può più di te, o se gli amici ti stanno lasciando è poiché “sei depresso” e non il processo inverso per cui si diventa tristi perché si è lasciati.
Cercando su internet si possono trovare diversi articoli per approfondimenti su questo tema (la maggior parte, ovviamente, non tradotti in italiano). Personalmente mi sento di suggerire come punto di partenza per esplorare l’argomento a questo link ( www.osservatoriopsicologia.it/2010/02/20/inefficacia-degli-antidepressivi/ )l’interessante articolo di Agnese Codignola e al commento che ne fa il professore Paolo Migone, come anche l’altra indicazione che fornisco nella bibliografia: il numero monotematico di terapia famigliare dedicato interamente a questo argomento a cura della professoressa Valeria Ugazio, la quale durante il convegno cui ho partecipato a novembre 2010 sul tema “Semantiche familiari e Psicopatologie tra clinica, ricerca e letteratura” ha espostobuona parte delle idee riassunte in questo articolo.
https://www.youtube.com/watch?v=oFPIFYgldJ0
Luca Mazzucchelli
Bibliografia consigliata
Ugazio, V. “L’appartenenza Negata. Il contesto intersoggettivo nelle organizzazioni depressive”, in Terapia famigliare n. 94, 2010
Ugazio, V. “Quello che la serotonina non spiega”, in Terapia Famigliare n. 94, 2010
Allan V. Horwitz, Jerome C. Wakefield. The loss of sadness: how psychiatry transformed normal sorrow into depressive disorder. Oxford University Press, USA, 2007, 272 pagine, € 29,74.
Recensione di quest’ultimo testo tratta da Bollettinosifo: www.bollettinosifo.it/articoli.php?archivio=yes&vol_id=358&id=4179
La perdita della tristezza: come la psichiatria ha trasformato il normale dolore in depressione. “Non sono depresso, sono malinconico.” E qui, si recuperano elementi classici del dibattito sugli psicofarmaci come silenziatori-sintomatici. In questo testo, che è una critica della moderna psichiatria, Allan V. Horwitz esamina il concetto di come le alterazioni del tono dell’umore spesso siano considerate malattie, e dedica una particolare attenzione all’utilizzo di farmaci in queste situazioni. E, allora, si torna ancora una volta al concetto di Farmacologia Sociale, coniato da Montastruc per descrivere i rapporti che intercorrono tra farmaci e ambiente circostante (Montastruc JL et al.: “Medicamentation” of society, non-diseases and non-medications: a point of view from social pharmacology. Eur J Clin Pharmacol 2005; 61: 309-13).
Il volume è opera di due famosi sociologi, Allan Horwitz e Jerome Wakefield. Robert Spitzer, professore di psichiatria del New York State Psychiatric Institute, definito dal “New Yorker” come uno dei più influenti psichiatri del XX secolo, afferma che il testo forse provocherà una piccola rivoluzione culturale. Segna anche una svolta il fatto che un importante psichiatra come Robert Spitzer sostenga appassionatamente le teorie di Horwitz e Wakefield, ammettendo di avere sbagliato in passato nel non avere tenuto conto del contesto in cui si manifesta la cosiddetta depressione.
Spitzer parla del fenomeno contemporaneo della perdita della tristezza, uno stato psicologico che invece è presente in tutte le epoche del passato e in tutte le culture. Spitzer sottolinea come i bambini nascano con la capacità di piangere e che perfino gli scimpanzé sono tristi quando la vita non gira nel verso giusto e dichiara che il dolore fa parte dell’esperienza emotiva umana. Dylan Evans, uno psichiatra evoluzionista, autore di Emotion: the science of sentiment, afferma che la capacità di sentirsi tristi, come di sentirsi felici, è una proprietà degli esseri umani, un elemento fondamentale del patrimonio emotivo umano, tanto che le persone nate cieche sorridono o hanno smorfie di dolore uguali a quelle che hanno sempre visto.
Gli psichiatri del ’900 avrebbero dunque sbagliato enormemente classificando come malattia la normale sofferenza e continuare a prescrivere antidepressivi può comportare problemi perché le persone perdono inibizioni e cautele, diventano insensibili al dolore e possono commettere atti che li portano a gravi danni a se stessi e agli altri. I due studiosi sostengono che se questi sintomi si riscontrano in persone che sono giù per motivi validi, come la fine di una relazione o la perdita del lavoro, non possono essere classificati come malattia. Diversamente, se questi segni di malessere si trovano in persone tristi senza l’esistenza di motivi reali per la loro tristezza, devono andare dallo psichiatra.
La depressione è diventata il disordine mentale più trattato, e si pensa che circa un Americano su dieci per anno soffra di questo problema. La sensazione che la depressione sia una causa di disabilità è diffusa in tutti i Paesi e ha portato a un aumento crescente del consumo di antidepressivi, a screening per la depressione sia negli ospedali che nelle scuole, e infine ha spinto verso diagnosi precoci di depressione, ma tutto ciò sulle basi di pochi o scarsi sintomi, con lo scopo di prevenire lo svilupparsi di situazioni di peggioramento.
Ma quali sono le dimensioni del problema? L’anno scorso in Inghilterra i medici hanno prescritto 31 milioni di ricette per antidepressivi, un numero mai raggiunto prima. Anche in Italia è sempre più seguita la terapia farmacologica: a dimostrarlo è l’aumento delle prescrizioni degli antidepressivi. Negli ultimi sette anni, dal ’99 al 2006, il numero delle persone a cui vengono somministrati si è quasi triplicato. Le scoperte scientifiche dell’ultimo decennio hanno permesso di sviluppare nuove categorie di farmaci, molto più specifiche e con effetti collaterali inferiori.
Demonizzati per anni, oggi gli antidepressivi sembrano non fare più così paura; infatti, in Italia, su 568.000 minori con un’età compresa da 0 a 17 anni, il 2,4% dei maschi e il 3,25% delle femmine assumono antidepressivi. Tra gli adolescenti, cioè i ragazzi con un’età dai 14 ai 17 anni, prendono questo tipo di farmaci circa il 6% dei maschi e più del 10% delle femmine.
Bene, il problema è importante e investe talmente tanti settori, dal sanitario al sociale, che non c’è altro da aggiungere: è un libro sicuramente da leggere. Consigliato a tutti.
Roberto Banfi
Dipartimento del Farmaco USL11, Empoli