Non voglio fare i compiti!!
Il disagio del bambino nel momento dei compiti a casa
Dalla didattica alla relazione con i genitori
La relazione che un bambino instaura con i suoi genitori è qualcosa di particolarmente complesso da descrivere. Di fatto essa dipende da una pluralità di fattori: la storia personale di ciascun genitore, il rapporto con i propri genitori e la posizione sperimentata come “figli”, la storia di coppia e la decisione di formare una famiglia, le caratteristiche del nuovo nato, il rapporto con eventuali fratelli e le relazioni che i genitori hanno creato con essi, il rapporto con altri familiari, il rapporto con il contesto storico e culturale,….
Spostando lo sguardo dall’individuo alla famiglia ci si accorge di come il bambino si inserisca in un sistema caratterizzato dalla complessità, all’interno del quale le sue caratteristiche individuali assumono un significato particolare ed unico.
Nell’articolo “Come è difficile fare i compiti” sono riportate le difficoltà oggettive di un bambino con diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento nell’eseguire i compiti assegnati. Molto spesso, quando un genitore riporta le difficoltà che incontra nel fare eseguire i compiti a casa al proprio figlio con diagnosi di DSA, ci si ferma ad analizzare le caratteristiche individuali del disturbo di apprendimento. I suggerimenti più frequenti riguardano l’introduzione agli strumenti compensativi e l’uso di metodologie didattiche modificate. L’esperienza insegna che tali strategie spesso non aiutano, non risolvono la difficoltà e, alcune volte, introducono maggiori problemi.
Cambiare il punto di vista.
Lo psichiatra Jay Haley nel 1973 definiva il sintomo un modo attraverso cui una persona entra in relazione con gli altri. In particolare, “si può descrivere come una modalità di affrontare o forse disarmare un’altra persona” (Haley pp. 34). Se allarghiamo il punto di vista dall’individuo, nel nostro caso il bambino con una diagnosi di DSA, alla relazione, forse possiamo cogliere maggiori significati e individuare il significato relazione di quello che stiamo osservando.
Il focus dell’attenzione in un caso di difficoltà scolastica è centrato sul bambino e sulle caratteristiche del disturbo. Ma se noi considerassimo la sua difficoltà a fare i compiti come un modo, una strategia, con cui entra in relazione con gli altri, e in particolar modo con i genitori e l’istituzione scolastica? E se, per esempio, il rifiuto nell’iniziare i compiti fosse il modo con cui affronta o disarma i genitori?
Definire la relazione. Una regola fondamentale della teoria della comunicazione sostiene che è impossibile evitare di definire una relazione. Secondo questa regola ogni messaggio scambiato fra due persone tende a definire il tipo di scambio che può verificarsi fra loro. Per fare un esempio, un bambino può dire al proprio genitore “Non riesco a fare i compiti da solo, voglio che tu li faccia con me”. Con questa affermazione egli dice al genitore di assumersi l’incarico di svolgere i compiti, e perciò di controllare l’interazione. Ma quando il bambino chiede al genitore cosa deve fare, a sua volta sta dicendo al genitore cosa deve fare, controllando di fatto la relazione. Risultato: la mamma si sente “costretta” a sedersi affianco al bambino, imponendo un ruolo di controllo ma è a sua volta controllata dal bambino, che media e definisce la relazione di vicinanza.
Ovviamente non è sempre così, ma questo esempio ci porta a considerare l’importanza di “leggere” attentamento lo scambio relazionale e i significati connessi al comportamento osservato, prima di proporre cambiamenti o interventi. Questo a maggior ragione, in un caso in cui un disturbo specifico di apprendimento qualifichi in qualche modo l’interazione incentrata sui compiti scolastici. Una lettura di un comportamento come quello di esempio fatta alla sola luce del DSA diagnosticato porterebbe a minimizzare, ad attivare significati solo connessi all’aspetto cognitivo del funzionamento individuale del bambino e a non considerare l’aspetto relazionale. L’intervento così proposto (consiglio di utilizzo di strumento compensativo), potrebbe risultare inefficace.
Un esempio concreto.
Giungono in studio una coppia di genitori che chiedono una consulenza per loro figlio 12enne, G., che fatica a studiare da solo. Il ragazzo ha diagnosi di DSA (Dislessia Evolutiva e di Disortografia Evolutiva entrambi di livello moderato), per cui già seguito dalla terza classe elementare vari cicli di trattamento delle abilità di lettura e scrittura, che hanno dato discreti risultati e miglioramenti osservabili. I genitori lamentano però come G. non sia mai riuscito a fare i compiti da solo, ed anzi si sia sempre rifiutato costringendo i genitori a continui richiami. Ora G. frequenta la prima media; i compiti sono svolti su richiesta insistente della madre, che dal lavoro lo chiama al telefono per pianificargli le attività e lo chiama a scadenze regolari per monitorare la situazione. La mamma sta pensando di chiedere una riduzione del tempo di lavoro per aiutare G. a fare i compiti. I genitori lavorano a tempo pieno. G. è accudito nel pomeriggio dalla nonna materna. Il colloquio con le insegnanti non rileva difficoltà di rendimento. Il problema riportato appare circoscritto al momento dei compiti a casa.
La raccolta della storia familiare permette di evidenziare come G. faccia parte di una famiglia “prestigiosa”, caratterizzata dall’alto livello scolastico raggiunto dai genitori e dai nonni e da scelte lavorative e scolastiche vincolate da tradizioni familiari. G. ha due fratelli; il primo, maggiore di due anni, è descritto come competente a scuola e ha buoni voti. G. lo descrive come “quasi perfetto” e riferisce con ammirazione che il fratello il prossimo anno andrà al liceo scientifico. Riguardo a sé, dice di essere bravo a scuola perché “scrivo tutti i compiti sul diario”.
L’osservazione di un momento di compiti è condotta con i genitori che si alternano nell’aiutare G. nella composizione di un testo; G. esegue una parte del compito da solo. Il padre tende a sostituirsi a G. nell’esecuzione del compito, incalzandolo spesso e correggendolo. La madre adotta una strategia più distaccata, sebbene lo guidi costantemente. Nei momenti di compito con la madre è G. a cercarla e a portare contenuti emotivi che rimandano ad una piacevolezza della vicinanza. Nei momento di attività autonoma G. mostra competenza e appropriatezza.
Nel colloquio successivo all’osservazione emerge come entrambi i genitori si sostituiscano a G. perché considerano importante che abbia buoni voti e faccia “buona impressione” alle insegnanti. D’altro canto è G. stesso a richiedere la vicinanza soprattutto della madre e a mostrarsi felice quando questa prende permessi dal lavoro per aiutarlo nei compiti, perché “così fanno anche le altre mamme”.
Di fatto, non facendo i compiti G. ottiene la vicinanza dei genitori, soprattutto della madre, che tanto desidera, facendo leva sul loro desiderio di competenza.
Come intervenire se non vuole fare i compiti?
Sembra necessario non tenere in considerazione solo gli aspetti di funzionamento individuale, cognitivo ed emotivo, del bambino, ma anche i significati relazionali e familiari connessi al comportamento di rifiuto del compito. Tali significati poggiano le basi nella storia familiare e coniugale dei genitori, nelle loro personali storie scolastiche, nei rapporti con eventuali fratelli e sorelle o parenti, ed anche negli aspetti storico culturali del momento.
Perché tali elementi siano colti, occorre proporre una attenta analisi della storia familiare, analizzare la dinamica dello scambio relazionale legato al momento dei compiti anche mediante osservazioni strutturate e colloqui familiari.
Gli interventi così proposti hanno maggiori possibilità di avere successo e di portare ad un cambiamento duraturo.
J.Haley (1963) Le strategie della Psicoterapia, Sansoni Nuova Biblioteca