Il cambiamento: funzione spontanea della mente “qualunque” Intervista a Miriam Gandolfi

Il cambiamento: funzione spontanea della mente “qualunque” Intervista a Miriam Gandolfi
A cura di Luca Mazzucchelli
Miriam Gandolfi si è laureata in Psicologia presso l’Università di Padova, ha poi effettuato la formazione in Psicoterapia Sistemica a Milano.
Psicoterapeuta, didatta della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica (S.I.R.T.S.) e docente presso la Scuola di Specializzazione E.I.S.T. di Milano.
E’ stata il primo Presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Provincia di Bolzano, Professore a contratto del corso per Assistenti Sociali dell’Università Cà Foscari di Venezia. Dal 1976 al 1992 ha lavorato presso il Servizio Specialistico Riabilitativo ed il Reparto Pediatrico dell’ U.S.L. Centro-Sud di Bolzano.
Attualmente è co-titolare del Centro di Psicologia della Comunicazione, sia presso la sede di Bolzano che quella di Trento, dove coordina una ricerca sui bambini autistici e le loro famiglie. Oltre a svolgere il lavoro come psicologa-Psicoterapeuta libera professionista, svolge attività formative e di supervisione presso strutture pubbliche e private sia sul territorio Provinciale (BZ) che Nazionale.
Indice e minutaggio degli argomenti affrontati nel video:
01:33 Manuale: perché questa scelta?
02:56 Il cambiamento: da dove si origina e il ruolo delle domande in questo processo
07:13 Il ruolo delle invenzioni e intersoggettività
11:52 Il cambiamento come volontà: esempio di una paziente anoressica
15:28 Psicologo come strumento di cambiamento: l’importanza di vedere
19:21 Prescrizioni perturbative e il ruolo dello scegliere
24:01 L’importanza delle interconnessioni disciplinari
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Sbobinatura dell’intervista
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“La terapia serve a questo, non ad interpretare, ma a farglielo vedere. Chiedo al paziente di fare qualcosa per vedere cosa succede a lui stesso e intorno. Lì scatta il cambiamento in maniera del tutto spontanea.”
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Manuale: perché questa scelta?
Luca Mazzucchelli: Un saluto a tutti da Luca Mazzucchelli, oggi parliamo di cambiamento e lo facciamo con Miriam Gandolfi, psicologa e psicoterapeuta che oltre a lavorare in ambito privato ha un’esperienza di cambiamento in contesti anche molto differenti fra loro. Miriam è supervisore in servizi per i disturbi alimentari, servizi per i disturbi delle dipendenze, lavora come supervisore in strutture residenziali per disabili, ma anche in strutture con persone autistiche. Io ho conosciuto Miriam perché docente della mia scuola di specializzazione EIST. Oggi parliamo di cambiamento di cui Miriam è un’esperta e sono contento di parlarne proprio con lei in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Psicoterapia: manuale di tessitura del cambiamento. Questo è il titolo, obbligatorio per tutte le figure impegnate o interessate all’ambito psi a prescindere dalla formazione che hanno. Miriam, come mai hai deciso di scrivere proprio un manuale?
Miriam Gandolfi: E’ un termine un po’ obsoleto, sempre guardato con un certo sospetto di nozionismo. In realtà io ho volutamente scelto questa parola per rifarmi alla radice etimologica di questo termine [manuale: dal latino manus, che significa mano]. Io credo che occuparsi di cambiamento con le persone sia un qualcosa di molto concreto che necessiti di saper mettere le mani e anche di sapersele sporcare. Noi ci occupiamo di situazioni in cui la sofferenza c’è, dunque non si può rimanere superficiali, nella superficie della razionalità. Ho fatto anche un’altra scelta, non ho voluto parlare di come si interviene a seconda di un quadro psicopatologico, di una diagnosi o di un problema, perché ritengo che il cambiamento sia un concetto sovraordinato alla diagnosi psicopatologica. Io ho usato il termine manovra, ancora una volta dal termine mano, non abbinato ad un quadro psicopatologico, ma ad un modo di perturbare il pensiero.
Il cambiamento: da dove si origina e il ruolo delle domande in questo processo
LM: Esatto, iniziamo ad entrare nel tema centrale del tuo libro, che è il cambiamento. Tu proponi una lettura del cambiamento che io credo sia molto interessante, soprattutto nel periodo storico nel quale ci troviamo, perché ho l’impressione che il cambiamento venga sempre visto con un occhio di scetticismo. Un po’ mi sembra che ci facciano credere che per cambiare abbiamo sempre più bisogno di supporti esterni ai quali appoggiarci. Tu invece sostieni che noi abbiamo già un insieme di risorse presenti al nostro interno, siamo stati dotati da madre natura di questa capacità che appunto tu dici è una funzione naturale della mente. Non ti senti un po’ contro corrente in questa cosa?
MG: Se sono controcorrente sono contenta, adesso poi lo dovranno valutare gli altri se sono controcorrente. Tutto il mio lavoro e il mio concetto di cambiamento punta sul primato della percezione, naturalmente la percezione visiva ha una funzione particolare, ma avendo iniziato io a lavorare con persone disabili ho scoperto tutti i canali percettivi, le interconnessioni, le sinergie. Il cambiamento, quello che io insisto a chiamare perturbativo, quello che avviene spontaneamente per ogni soggetto, è sempre un cambiamento che parte dalla percezione: la percezione genera un’emozione, l’emozione produce un pensiero, un atto cognitivo e di conseguenza il cambiamento. Dunque tutto il mio percorso e la proposta di lavoro su come innescare un cambiamento segue sempre questa modalità che naturalmente è una modalità circolare: percezione, emozione, cognizione, comportamento e nuova percezione. Il cambiamento nasce quando la percezione si automodifica.
LM: E qui il motivo per cui tu dai un valore assoluto allo strumento delle domande. In un’epoca in cui tutti cercano risposte tu dici che dobbiamo concentrarsi sulle domande. Ponendosi delle domande differenti possiamo modificare quella che è la nostra percezione?
MG: Si esattamente, io trovo che in questo momento veniamo addestrati a cercare risposte, piuttosto che a formulare le domande a noi stessi. Ho sentito alcuni giorni fa una notizia secondo cui in Inghilterra per contrastare il crescente aumento della popolazione obesa metteranno un bollino verde, giallo o rosso come il semaforo a seconda che il cibo sia liberamente consumabile, consumabile con discrezione oppure vietato. Sostenevano che questo serviva alle persone a scegliere correttamente i cibi, io invece ho l’impressione che questo sia un modo per condizionare le persone a non pensare più, a non farsi la domanda “dietro a quel colore cosa ci sta?” e a capire cosa c’è dietro… Il cambiamento non è imparare ad accogliere delle risposte, il cambiamento nasce stimolando la funzione di fare delle domande. Chi lavora con i bambini o ha figli, sa che i bambini sono incredibilmente prolifici di domande. Io sostengo sempre che i bambini sono intelligenti, poi quando cresciamo diventiamo un po’ stupidi, in realtà ci affezioniamo alle risposte e a quelle che sono confezionate. Per lo psicoterapeuta o per l’operatore che si occupa di aiuto questo è molto importante, perché il paziente arriva e chiede “cosa devo fare?” oppure “mi risolva questo problema” e dunque è importantissimo che l’operatore non si lasci sedurre dall’idea che lui può fornire delle risposte.
Il ruolo delle invenzioni e intersoggettività
LM: Tu dici che noi tutti abbiamo le capacità al nostro interno per cambiare. Se fosse veramente cosi, tu dici che il cambiamento è una meta-funzione di una mente qualunque, perché uno allora dovrebbe andare dallo psicologo Miriam?
MG: Faccio una piccola premessa: oltre ad aver analizzato gli studi di Goethe ho scoperto altri studi molto interessanti di matematici, in particolare mi aveva colpito Hadamard, lui è stato il primo formulatore della teoria sistemica in una tempistica assolutamente parallela a Freud, che si è occupato di tutt’altra teoria della mente, Hadamard è stato il primo ad occuparsi dei meccanismi che sono sottostanti alla psicologia dell’invenzione. Egli ha pensato di intervistare niente meno che i grandi matematici e fisici dell’epoca, tra cui anche Einstein. Ha chiesto a questi personaggi di spiegare come avvenissero le loro invenzioni, che sono fra i cambiamenti più grandi che possano avvenire nella vita delle persone, perché sono cambiamenti che hanno a che fare con le scoperte, con l’invenzione di nuovi strumenti eccetera. Ho trovato in questo lavoro interessantissimo di Hadamard esattamente la ricerca di come la mente spontaneamente scomponga e ricomponga gli elementi sia di pensiero che di percezione in modo da creare le cosiddette invenzioni. Le invenzioni sono di fatto la quintessenza del cambiamento. Io ho cercato di riportare questo, di osservarlo come avviene nel bambino. Io mi occupo da sempre di psicologia dell’età evolutiva, come fa un bambino ad inventare che un oggetto sia un giocattolo? Chi ha bambini di un anno e mezzo o due anni sa che uno dei giocattoli prediletti del bambino, un’invenzione del giocattolo è fare il bucato nella tazza del water. Lo so per esperienza personale, le mie figlie tutte e due a loro tempo mi hanno insegnato questa cosa e la domanda è: com’è che un bambino smette di giocare? Come capisce che la tazza del water non è una bellissima invenzione in cui lavare le sue tazzine o il suo peluches, ma diventa un’altra cosa? [Questa consapevolezza] nasce nel momento in cui il bambino, felice di aver fatto questa scoperta soggettivamente e individualmente, scopre la faccia della mamma quando lo becca in quel momento. Qui entra l’altro discorso della costruzione dell’identità. L’identità, cioè chi sono io e se sono qualcuno di accettabile si costruisce in questa conversazione, tra le mie scoperte, ho scoperto di poter fare qualcosa io bimbo di 18 mesi e diventa un’invenzione quando io la manipolo spontaneamente e mi piace soggettivamente, poi dovrò entrare in conversazione con gli adulti che sono per me importanti. Quindi chi sono io, sono stato un genio che ha fatto una scoperta eccezionale, ho trovato un modo per lavare il mio peluches, oppure sono un bambino sporcaccione se la mamma mi guarda e mi urla? Questo è il passo importante, nel momento in cui io condivido pienamente quei filoni, quegli approcci di lettura della mente dove l’intersoggettività è primaria. Non penso che il bambino e le persone si sviluppino individualmente: il bambino non si sviluppa per stati individualmente, si sviluppa attraverso la conversazione con tutti i partner sociali che incontra, perciò abbandonerà un comportamento o lo manterrà a seconda che questo gli permetta di costruire e mantenere l’intersoggettività con gli altri partner sociali della sua vita.
Il cambiamento come volontà: esempio di una paziente anoressica
LM: Lo psicologo quindi è uno di questi soggetti attraverso cui co – costruire delle percezioni differenti ?
MG: Si, io trovo che lo psicologo sia colui che aiuta le persone che si rivolgono a lui a riconsiderare, a reimparare come questo scambio intersoggettivo sia fondato su un fraintendimento nella costruzione del dialogo conversazionale. Torno un attimo ad un esempio di una mia paziente anoressica, che mi è arrivata dopo dieci anni di anoressia, inviata dal servizio sui disturbi alimentari dove io do la supervisione al personale. Siccome aveva vagato per vari servizi anche extra territoriali, bisognava gestire una cronicità. In assenza di speranza di guarigione era diventato molto difficile anche per gli operatori intervenire. Inizio con questa paziente, faccio la consultazione familiare, ragazza di 23 anni all’epoca ed era già da otto anni una paziente con disturbo alimentare gravemente restrittivo. Salto le fasi di tutto il percorso terapeutico, ad un certo punto il lavoro con la famiglia si rivela impraticabile, faccio un contratto individuale. Attuo un passaggio di setting, sono passaggi di contesti conversazionali quindi devono essere molto curati. Ad un certo punto questa ragazza fa una serie di cambiamenti enormi, recupera il ciclo mestruale, cambia partner, decide addirittura che vuole diventare madre. Chiusa la terapia ho dei colloqui di verifica, di messa a punto e le chiedo come mai lei continui a mantenere un peso così limitato, la stessa dietologa non capisce come questa giovane donna abbia potuto riprendere il ciclo mestruale, perché rimane ad un limite di peso molto basso. Lei mi dà una lezione incredibile, mi dice: “adesso che io ho scelto il lavoro che mi piace, ho terminato gli studi, ho cambiato partner e ho deciso che posso avere un bambino, se io mettessi su dei chili e so che saprei come farlo, mia mamma penserebbe che adesso è tutto a posto e io non voglio che mia madre pensi che è tutto a posto, io voglio che lei si ricordi che c’è stata una grande sofferenza nella nostra famiglia e non voglio darle l’illusione che io adesso sono guarita ed è tutto passato”. Questa paziente sceglie di rimanere la memoria critica della sua famiglia, scelta discutibile, ma lei era riuscita a capire il problema, aveva assunto il compito di censore nella sua famiglia e non era ancora pronta ad abbandonarlo. Non so se lo potrà abbandonare, era riuscita a sistemare alcune cose, ma questo abbandono del campo non era riuscito a farlo.
Psicologo come strumento di cambiamento: l’importanza di vedere
LM Si tratta di decidere di cambiare?
MG Si, io credo che questo sia il lavoro dal terapeuta. Quando il paziente arriva dal terapeuta non è consapevole di essere all’interno di una rete intersoggettiva, cioè lui pensa di fare una cosa, in realtà non realizza che in maniera inconsapevole sia per lui che per gli altri attori sociali sta facendo un’altra cosa. La terapia serve a questo: non ad interpretare, ma a farglielo vedere. Io uso continuamente nel mio lavoro la parola “vedere” e anche gli allievi mi dicono che quando comincia a comparire il cambiamento il paziente, che si tratti di un singolo o di una coppia o di una famiglia, comincia a dire: “vista così potrebbe ben essere che io credo di fare una certa cosa, in realtà ne sto facendo un’altra. Io pensavo di difendere mia madre da un padre aggressore, in realtà comprendo che mia madre sventolava un padre aggressore perché così io le rimanevo attaccato come un francobollo”, c’è una vera e propria ristrutturazione percettiva. Sottolineo nuovamente questo termine che secondo me implica che chi si vuole occupare di cambiamento deve diventare esperto di percezione, di percezioni dissonanti e di percezioni che simultaneamente possono acquistare aspetti e significati diversi.
LM: Vedere cose diverse per sentire cose differenti e per agire in altri modi?
MG: Per darsi significati a se stessi e agli altri diversi. Se penso che mia madre sia una vittima mi comporterò in un modo, se penso sia una manipolatrice mi comporterò in un altro. Portavo spesso a lezione materiali non a caso presi da artisti, fra più famosi Arcimboldo, non tanto le sue maschere quanto il famoso cesto di frutta che diventa un cavaliere grottesco: la stessa figura guardata da un diverso punto di vista diventa tutt’altro. Un altro maestro in questo ambito è stato ad esempio Dalì, che si è dilettato in un’infinità di figure ambigue. Non parliamo poi di Escher, che rappresenta il paradosso percettivo, ad certo punto tu diventi scemo se cerchi di capire dove sta il trucco. Io ne parlo molto precisamente nel mio lavoro, quando il terapeuta capisce questo aspetto del modo di funzionare della mente riesce a renderlo percepibile al paziente e il paziente si modifica spontaneamente. Io non sono mai le prescrizioni intese come consigli, cosa uno dovrebbe fare eccetera, io sono sempre per le prescrizioni perturbative: chiedo al paziente di fare qualcosa per vedere cosa succede a lui stesso e intorno, lì scatta il cambiamento in maniera del tutto spontanea.
Le prescrizioni perturbative e il ruolo dello scegliere
LM: Puoi farci un esempio di una prescrizione che vada in questa direzione?
MG: Si, te ne posso dare una che inserisco come un must, è un passaggio che va sempre dato dopo la fase della rilettura. La rilettura è il primo passaggio in cui il terapeuta sconnette elementi che il paziente connette spontaneamente e li ricombina in un’altra maniera. Ad esempio il discorso della mamma che viene descritta come vittima di un padre violento, abbandonante, fedifrago, quello che si vuole o invece di una donna che insiste a rimanere in certe situazioni con la possibilità invece di sganciarsi anche economicamente e culturalmente. Introduco quindi una domanda: come mai si rimane in un problema quando c’era la possibilità di uscirne? La prima prescrizione che io do in un caso come questo dove il paziente, maschio o femmina che sia non fa differenza, ritiene di essere importantissimo e che senza di lui la mamma non possa vivere, è una tabella. Io do questa prescrizione: chiedo di fare una tabella molto banale con alcune colonne. Nella prima colonna c’è la data del giorno, è un rilevamento quotidiano e nelle altre colonne metto il paziente o i pazienti se si tratta di una coppia e i personaggi rilevanti per il paziente. Principalmente sono i genitori, ma possono essere anche i fratelli eccetera eccetera e chiedo di fare un rilevamento su chi prende le iniziative di contatto. Semplicemente rilevare che un genitore che io ritengo senza di me non possa vivere, ma faccio l’esperienza che non mi cerca mai, sono sempre io quello che lo cerco allora posso dire: “senta facciamo una prova: cosa succederebbe se lei chiamasse un po’ di meno? mi continui a fare questo rilevamento”. Il paziente potrebbe scoprire che il genitore non lo cerca comunque, allora in quel momento nero su bianco il paziente scopre che la sua idea che il genitore sarebbe morto se non avesse chiamato tre volte al giorno era assolutamente infondata e lo percepisce proprio graficamente.
LM: Quindi c’è, mi sembra di capire, un’importanza data alla dimensione del fare per capire, pensare chiaramente sì, ma questa è una prescrizione attraverso cui la persona facendo questa cosa, tenendo questo diario e cercando lui per primo meno la madre si accorge di come cambiano le cose intorno a lui…
MG: Infatti, vedi che torniamo alla parola manuale? Non abbiamo una parola che preveda i piedi o preveda le gambe, ma comunque il corpo e la percezione sono ciò che ci mette in conversazione con il mondo e dunque è ciò che facciamo, ma non perché seguiamo un consiglio giusto che ci viene posto dall’esterno, è perché noi manipoliamo di nuovo la realtà e guardiamo che cosa ne esce. Io faccio riferimento al concetto di mente conversazionale, cosa voglio dire con questo: ogni individuo è in conversazione con il mondo, io vado nel mondo e sento freddo, sento un odore o sento un suono, quindi vale per gli oggetti e ancor di più vale per le persone. E’ solo quando io manipolo il mio mondo esterno, che si tratti di oggetti o che si tratti di persone, che ne ricavo delle percezioni, ne ricavo emozioni e a questo punto faccio un pensiero e scelgo un comportamento. Il tema della scelta è per me cruciale nel cambiamento.
L’importanza delle interconnessioni disciplinari
LM: Grazie sei stata chiarissima, moltissimi spunti… la psicologia stessa mi vien da dire talvolta deve avere il coraggio di cambiare un po’ di più. Siamo una scienza di confine e in questi confini dovremmo mettere più ponti che muri con le altre discipline, d’altra parte tu sei portavoce del movimento connessionista, della scienza della complessità. Talvolta noi per primi dovremmo avere il coraggio di manipolare un po’ come chiediamo ai pazienti stessi di fare.
MG Sì, io mi permetto di fare un’ autocritica alla nostra professione, alla professione psi. A volte ho la sensazione che ci si dedichi di più a fare la guerra ad una teoria piuttosto che un’altra, ad un modello piuttosto che un altro, invece di acquisire un concetto di tipo epistemologico, che fa riferimento ad un livello più alto in cui le teorie locali sono anche interconnesse fra di loro. Io non ho dubbi che, se dobbiamo apprendere una lingua o dobbiamo fare altri apprendimenti, quelli che già Bateson chiamava di livello uno che noi facciamo sempre nella vita quotidiana, ci siano delle tecniche di apprendimento che sono assolutamente fondamentali. Non ho dubbi che per esempio fare un’esperienza di tipo artistico, come andare a teatro, leggere un romanzo o partecipare a ad un’attività di pittura, ti fa fare delle esperienze che ti modificano. Questa non è tutta la realtà, io credo che la scienza psicologica dovrebbe sviluppare, cosa peraltro che è già avvenuta in altre discipline in particolare nella matematica e nell’economia, l’aspetto di distinguere tra teorie che io chiamo locali e viceversa un concetto più ampio che si occupa delle relazioni fra teorie e quindi delle connessioni. Tu prima facevi riferimento all’essere contro corrente rispetto al concetto di cambiamento. Non per niente io nel mio libro ho attinto molto poco devo dire, non me ne vogliano i colleghi psi, dai maestri psicologici, viceversa ho pescato nell’ambito della matematica, nell’ambito dell’economia. Siamo in un momento di gravissima crisi eppure ci sono economisti che ci dicono perché siamo in questa crisi, perché è prevalsa una lettura riduzionista dell’economia piuttosto che una connessionista. Io ho attinto da Stefano Zamagni che è un professore di Economia all’Università di Bologna che dice delle cose che mi fanno vergognare, cose da cui noi psicologi non abbiamo attinto. Un giurista come Zagrebelsky, che fa riferimento ad un concetto di sviluppo del senso comune; come se noi psicologi ci fossimo persi per strada a guardare le nostre piccole cesellate teorie, per carità importantissime, ma abbiamo perso il senso del l’interconnessione. Questo secondo me va riguadagnato, anche nell’ambito sistemico dal mio punto di vista, faccio autocritica alla cornice alla quale comunque mi sento di appartenere sicuramente. Io credo che in questo momento l’apporto che proprio le discipline psicologiche potrebbero dare sia stato surclassato da altre discipline che si sono avvicinate di più alla teoria della complessità.
LM: Sono molto d’accordo con te Miriam, ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato, vediamo se questa nostra chiacchierata susciterà commenti, domande o curiosità alla quale poi daremo risposta e quindi grazie per essere stata qui.
MG: Grazie a te e anche a chi ci sente e ci ha seguito, ciao!