L’ironia del lutto
L’ironia del lutto
L’ironia del lutto
“Le perdite sono le ombre di tutti i possessi, materiali e immateriali”. Con questa metafora, Carlos Sluzki[1] evidenzia che così come l’ombra affianca costantemente il nostro corpo, anche la certezza che prima o poi perderemo qualcuno (o qualcosa) ci accompagna inevitabilmente: non si tratta di una componente opzionale dell’esperienza umana, ma di una sua parte inevitabile e costitutiva. Il “lutto” è il periodo di tempo e l’insieme di emozioni, riti sociali, ma soprattutto dolori personali che succedono ad una perdita importante.
In lingua norvegese, la parola “lutto” è tradotta con “strappo”e “rottura”, e questo rendere bene l’idea di quello che si prova in seguito alla morte di una persona amata, soprattutto quando la scomparsa avviene in modo improvviso e inaspettato: il lutto è essenzialmente un’esperienza di mutilazione e profondo dolore, che ci fa sentire privati di parti insostituibili e irrecuperabili della nostra vita. Proprio la consapevolezza di aver perso in modo definitivo una persona amata spiega come mai, nonostante il dolore sconvolgente e dilaniante che si radica nei nostri sentimenti, tendiamo comunque a non separarci dal lutto: se vogliamo c’è anche una sorta di ironia in tutto questo, dal momento che solitamente tendiamo a rimuovere i ricordi. Il lutto invece no, lo conserviamo e lo difendiamo dall’oblio, perché in fondo è il modo per mantenere il legame con la persona che ora non c’è più. Spesso si tratta di preservare in noi un vuoto che non si vuole riempire, per difendere lo spazio e la memoria di chi abbiamo perso.
Dott. Emanuele Zanaboni
BOWLBY, J., Attaccamento e perdita. Vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1983.
NEIMEYER R., Lessons of loss: A guide to coping, Brunner Routledge, New York, 2000.
[1] Psicoterapeuta sistemico-relazionale, negli anni ’60 ha collaborato con Gregory Bateson presso il Mental Research Institute di Palo Alto (California) contribuendo a fare del centro la culla del pensiero sistemico-relazionale. Sluzki è stato direttore del MRI nei primi anni ’80 e attualmente si occupa anche di terapie con rifugiati e vittime di tortura.