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Allo psicologo devi dire tutto?

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Allo psicologo devi dire tutto?

Allo psicologo devi dire tutto?

Vorrei introdurre questo articolo della dottoressa Bianconcini con una citazione di un libro letto di recente, dal titolo “Musica”, di Yiukio Mishima, che parla delle “bugie” dette in seduta.
“La psicoanalisi, è inutile dirlo, è un mezzo per arrivare alla verità, ma nel suo procedimento bisogna dare sia alle bugie che alle verità la stessa importanza. Perchè più una persona è abituata a mentire e più non si accorge se quello che sta dicendo è vero o falso”
Buon proseguimento di lettura,

Luca Mazzucchelli

Psico-fiction
E’ una passeggiata fare lo psicologo nei film.
Hai uno studio arredato con degli incredibili mobili di design. Fai accomodare i tuoi pazienti sulla chaise longue di pelle nera e acciaio Le Corbusier. In alternativa, il tuo studio è pieno di pregevolissimi pezzi di antiquariato. Stuoli di efficienti segretarie sono pronte ai tuoi ordini (mi dicono che nella soap “Beautiful” c’era una psicologa la cui attività professionale prevalente era citofonare alla segretaria per dirle con piglio drammatico: “Signorina, annulli tutti i miei appuntamenti di oggi”).
    E com’è facile coi pazienti! Hai una risposta a tutto, sai spiegare ogni cosa, non ti fai mettere in difficoltà da nulla, non esiti mai, sei sempre certissimo di sapere cosa va detto e quando. E, soprattutto, fai presto, incredibilmente presto a chiudere i casi: basta che il tuo paziente vuoti il sacco e ti dica tutto, ma proprio tutto del suo passato.
    Perchè… i pazienti vengono da te per questo, no? Per “vuotare il sacco”! Magari qualcuno resiste, cerca di sorvolare su certi ricordi, vedi che appena si sfiorano alcuni argomenti va in ansia… ma tu, o prode psicologo che vuole portare fino in fondo la sua eroica missione, non gli dai tregua. Più lui si dibatte, più tu lo metti all’angolo e lo inchiodi alla sua responsabilità: finchè non lo costringi, stremato, a confessare quel sentimento, quel fatto, quel ricordo tanto imbarazzante o sgradevole. Sei il Perry Mason del lettino.
    A questo punto il paziente scoppia in un pianto liberatorio e arriva la tanto agognata confessione: “Sì, non posso più negarlo, io odiavo mio padre perchè giocava con le mie macchinine”, “Ormai lo devo ammettere: io ero geloso di mio fratello e gli ho decapitato tutti i soldatini”, “E’ vero, da bambino guardavo il sedere della maestra”… 
    Scena finale: colonna sonora di musica rasserenante (oramai “il caso è chiuso”, no?), abbraccio comosso, paziente felice che fa per andarsene, indugia alla porta, si gira e timidamente fa: “Dottore… Grazie”. Inquadratura del viso del dottore che sfoggia il miglior sorriso paterno di cui è capace. Sigla finale, luci in sala, che-bel-film-ho-pianto-tanto.

    Forse influenzate da idee del genere, succede che da me vengano persone convinte di dovermi dire “tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità”. O genitori che cercano di convincere il figlio, a cui magari non interessa proprio venire in seduta, a presentarsi per dire “come stanno le cose”, in modo che io possa “metterlo in riga”.

Psico-realtà
    Ma se una persona ha l’impressione che parlare di certi argomenti la disturbi troppo e crede di non poter sopportare il disagio che ne deriverebbe, che si fa?
    Per conto mio, non deve sentirsi obbligata a “vuotare” nessun “sacco”.
    Immagino l’obiezione: “Ma come? Allora come fa una persona a farsi aiutare se non dice proprio tutto?”. Critica classica e legittima, a cui voglio rispondere in due modi.

Dire tutto: cioè?
    Per prima cosa: che significa “dire tutto”?
    Se ci ragioniamo non sarà mai possibile in nessun contesto dire tutto, ma proprio tutto quel che riguarda la propria persona e la propria storia. Qualcosa dovrà essere sorvolato per questioni di tempo, qualcosa sarà magari trascurato perchè di scarsa importanza, qualcosa semplicemente sarà dimenticato. Perciò non importa quanto dettagliato io voglia essere: mi toccherà sempre e comunque fare una cernita.
    Forse allora “tutto” significa “tutti i fatti significativi”? Benissimo! Ma… un attimo! Significativi per chi? Per cosa? In base a quale criterio? Questo è l’errore più frequente che commettono le persone che stanno attorno ai pazienti: pensano che in seduta debbano essere dette le cose che secondo loro sono le più importanti. Quante volte mi è successo di essere interpellata da Tizio che voleva verificare se Caio mi aveva detto la tal cosa e la talaltra, oppure che voleva a tutti i costi informarmi di una cosa che era “indispensabile che io sapessi” per poter aiutare Caio! Mentre magari per Caio quelli che per Tizio erano cose essenziali erano fatti di secondaria importanza e a lui premeva molto di più parlare di altro. Le cose, nel mio mestiere, stanno così: i fatti e gli eventi della vita non hanno lo stesso peso e lo stesso valore per tutti; perciò è meglio capire il senso che le cose hanno per quella precisa persona, non per gli altri. Ricordo ad esempio che un paziente iniziò a soffrire di una serie di disturbi dopo aver appreso la notizia, triste ma di certo non straordinaria, della morte per malattia di un personaggio famoso del jet-set. Ora, se ci fossero dei criteri oggettivamente stabiliti per decidere quel che è “veramente importante” e quel che si può tralasciare, probabilmente quella notizia starebbe nel novero dei fatti irrilevanti: ma per quel paziente il fatto non fu di sicuro banale. Ed è questo, e solo questo, che conta quando si è in seduta. Perchè solo ascoltando l’altro e lasciandogli scegliere gli argomenti si può capire qualcosa di come sta e del perchè sta così.

Parlare: sempre, comunque, in ogni momento?
    C’è poi il secondo fattore. Abbiamo, credo, tutti esperienza di situazioni in cui sputare il rospo, lungi dal darci sollievo, ci ha fatti stare peggio. Quella volta in cui, fedeli al credo del “dirsi tutto”, abbiamo usato parole troppo sincere che hanno ferito, non rinsaldato, un rapporto. Quella volta in cui per non sentire il peso di un segreto lo abbiamo confessato ma non ci siamo sentiti la coscienza alleggerita, bensì più gravata di prima. Quella volta in cui ci siamo pentiti di aver parlato e ci siamo detti: “Ah, se potessi rimangiarmi quel discorso”.
    Se una cosa mi disturba troppo, tenerla strettamente fra me e me potrebbe essere il mio modo per arginarne almeno un po’ il peso. E parlarne, per quanto io lo faccia in un contesto protetto, potrebbe essere troppo disturbante: non tutti e non sempre si trovano alleggeriti dallo sfogarsi. Senza contare che non c’è solo il momento dello sputare il rospo ma c’è anche il dopo. Sarò in grado di sopportare il peso emotivo delle mie parole, dopo? O non starò peggio, dopo? Il mio interlocutore reggerà, dopo?

C’è un tempo per ogni cosa
    Questo è il motivo per cui secondo me una persona non deve sentirsi obbligata a dire in seduta cose che la fanno troppo soffrire. Se prova troppo dolore all’idea di parlarne e non se la sente proprio di entrare in argomento, questo potrebbe essere il segnale che non si sente ancora pronta a fronteggiare la corrente emotiva sottostante. Mi succede spesso di commentare coi miei pazienti che “le cose vengono fuori quando è il loro momento, non troppo prima nè troppo dopo”, per cui se uno se la sente di fare lo sforzo di parlare va bene, se uno vuole dire qualcosa di doloroso perchè lo desidera ok, ma se ci sta troppo male deve essergli chiaro che nessuno lo forza a farsi violenza. E’ probabile che, semplicemente, quello non sia il momento giusto: meglio dunque aspettare una situazione più propizia. Certo: questo può significare che passerà del tempo, ma secondo me è sempre meglio non costringere le persone a seguire i nostri, di tempi, e lasciare che la persona proceda seguendo il suo e non il nostro ritmo.

Per gentile concessione della Dott.ssa Silvia Bianconcini www.psicologia-imola.it

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