Psicosi: un nuovo approccio in una nuova società
Psicosi: un nuovo approccio in una nuova società
Intervista a Ron Coleman.
Psicosi: un nuovo approccio in una nuova società
L’associazione Op.L.A. (Operatori lombardi associati per la salute mentale) ha promosso l’incontro con Ron Coleman, ex paziente uditore di voci ora passato dalla parte di operatore.
Con la sua esperienza di malato aiuta altri ad uscire dalla malattia e dà indicazioni ai tecnici della salute: ecco un obiettivo del periodo post Basaglia per promuovere un nuovo modo di guarigione dalla schizofrenia.
E’ un tipo strano Ron Coleman. Grosso, goffo, trasandato, con occhiaie accentuate e barba incolta, sembra chiuso nel suo guscio quasi a estremizzare la corporeità sviluppata nei periodi più bui della sua vita, dei quali riesce a parlare con scioltezza, disinvoltura, uscendo dalla vergogna e dai sensi di colpa che in genere attanagliano chi prova disagio mentale.
La sua è una storia simile a quella raccontata nel film “A beautiful mind”: in seguito a un’infanzia triste e dura, nel 1982 viene diagnosticato schizofrenico poiché sentiva 6 diverse voci. Fu costretto a sottoporsi a diversi elettrochoc, a prendere psicofarmaci per sentirsi meglio (cosa che non accadde mai, le voci aumentarono a 7), ad entrare e uscire da ospedali psichiatrici, trovando solo poche persone capaci di aiutarlo. La svolta avvenne con la partecipazione a un gruppo riservato a uditori di voci in seguito al quale cominciò gradualmente a dialogare con esse, rendendole prima innocue e poi amiche, confortanti, fino a farle scomparire quasi del tutto nel 1991.
Un piccolo esperimento per cercare di capire il vissuto di quelli che chiamiamo psicotici può essere fatto chiedendo a qualcuno di accostare le mani alle nostre orecchie mentre intratteniamo una conversazione con un amico. Suo compito sarà quello di parlarci in maniera terribile come farebbero le voci: “Sei sporco, non vali niente, lui è cattivo e ti vuole uccidere… Reagisci! …Non vali niente…”. Questa breve esperienza provocherà in noi angoscia, incomprensione, rabbia per non potere rispondere a tono, qualcuno si sentirà a pezzi, impotente, senza via d’uscita. Sono tutti sentimenti che noi percepiamo accennati ma che uno “psicotico” vive all’ennesima potenza, poiché le voci sono per lui spesso più di una e gli parlano non per un minuto ma per anni, gettandolo nella confusione e incertezza sulla realtà.
Il “cogitum ergo sum” Cartesiano si trasforma nella prospettiva di Coleman in “Sono ciò che penso di essere”: persone con esperienze così invalidanti “penseranno di essere” in maniera diversa dalla nostra, rapportandosi con il mondo a loro modo, pagando colpe che spesso sono piovute loro addosso: traumi, abusi, sevizie. Cosa possiamo fare per loro?
Dal riduzionismo alla diversità
“Le persone possono guarire completamente, velocemente e fuori dai servizi – afferma Ron – purché si combatta la tendenza a ridurre le cause della malattia mentale a motivi biologici. Non mi sono ammalato da un giorno all’altro ma ho fatto un viaggio verso la malattia, così come ho fatto un viaggio verso la guarigione. Le voci che sentivo non centravano nulla con i miei geni o con la dopamina che circola nel cervello ma erano lasciti della mia esperienza. Pertanto era inutile distrarmi con i farmaci ma occorreva che qualcuno mi aiutasse a confrontarmi con esse, a capirle”. D’altra parte prima dell’avvento dei neurolettici gli psicotici guarivano attraverso soli colloqui nel 33% dei casi (Warner, 1991), percentuale che rimane invariata fino ai giorni nostri nonostante l’aumento delle spese per gli psicofarmaci e la gestione dei servizi psichiatrici, che Coleman definisce “spesso organizzati per il mantenimento della malattia e non per la guarigione”.
Se le medicine non funzionano bisogna avere il coraggio di cambiare strada senza dare colpa al paziente definendolo semplicemente “resistente al farmaco”. “Sono orgoglioso di lavorare nella psichiatria – afferma Ron – ma talvolta mi vergogno di quello che facciamo ai nostri clienti: nella nostra società si cerca sempre una soluzione adatta per tutti mentre dovremmo cercare la soluzione giusta per quel tipo di persona specifico”.
Un esempio concreto
Il segreto della sua tecnica risiede nell’ascoltare e interagire con le voci del paziente, cercando di valorizzare e avvicinare al paziente quelle positive e allontanare e contrattare con quelle persecutorie. Non sedarle attraverso farmaci e costrizioni fisiche sui pazienti ma renderle tollerabili, accettabili, amiche: non si possono cambiare gli eventi della vita ma si può lavorare sul nostro modo di relazionarci ad essi e di percepirli. Dando un nome alle voci, interrogandole e interpretandole nel loro contesto d’insorgenza spesso si riesce a farle allontanare del tutto, perché si accetta e metabolizza il problema di cui sono portatrici, integrandolo nei vissuti.
Siamo tutti schizofrenici?
Non solo persone famose sono in questa lista: in molti sono convinti di avere un angelo custode, altri riferiscono di aver parlato con una persona cara morta, alcuni dialogano con se stessi commentando in terza persona le cose che fanno come se fossero all’interno di un romanzo. A tante persone è capitato di svegliarsi o addormentarsi sentendo qualcuno che chiamava il proprio nome senza nessuno presente nella stanza; molti giovani quando commettono cose sbagliate sentono una voce dire: “Quello che stai facendo è una fesseria”. A ben vedere la differenza tra pensiero, coscienza e “voce” è più sottile di quanto possa apparire e l’essere schizofrenici è forse solo un diverso modo di essere e sentirsi .
Non è anormale dunque sentire le voci ma è la risposta ad esse a causare il problema, che viene poi mantenuto e rinforzato dalla società. “Nel 1996 davamo ai nostri pazienti un cellulare, dicendo loro che ogni volta che sentivano una voce dovevano prendere il telefono, schiacciare un tasto qualsiasi e rispondere alle voci tramite l’apparecchio”. Il risultato fu incredibile perché i pazienti erano in grado di potersi muovere liberamente per i negozi senza che nessuno si allarmasse e chiamasse la polizia per portarli in ospedale. Veniva così compiuto un primo passo nel combattere le paure e le pressioni sociali che spesso remano contro la guarigione dei pazienti.
Cos’è la schizofrenia?
Per Coleman si può parlare di politica della pazzia: “L’organizzazione dei servizi è critica e ogni sistema cura le persone in un certo modo: l’idea della cura è politica. Quello che accade nella psichiatria rispecchia i valori della società agricola, industriale o contemporanea. La perdita di autorità di Berlusconi in Italia, di Bush negli Stati Uniti e di Blair in Inghilterra sono sintomatici di un indebolimento della tendenza riduzionista a favore di quella della diversità, poiché il capitalismo accetta un solo punto di vista negando gli altri (globalizzazione anche dei comportamenti). Oggi le case farmaceutiche diminuiscono la loro supposta autorità morale in psichiatria, sfidate dallo scetticismo delle persone frustrate dal non vedere guarire i propri cari”.
E’ il concetto di malattia a dover cambiare: “Serve essere consapevoli che la malattia non è solo biologia alterata dentro noi”; siamo persone, corpo e mente che interagiscono alimentati dalle emozioni. La biologia ha un suo ruolo dentro l’uomo che si dà un senso all’interno del suo contesto personale, familiare e sociale.
Luca Mazzucchelli
Bibliografia consigliata:
Warner R. Schizofrenia e guarigione Feltrinelli, Milano 1991
Warner R (Ed) (1995) Alternatives to the mental hospital for acute psychiatric treatment . Washington, DC: American Psychiatric Press