
A Milano, l’esperienza di dieci persone con disagi che stanno frequentando un corso per diventare facilitatori sociali
(…) Attorno al tavolo dove di solito si consumano chiacchiere e caffè tra pazienti e operatori, Michele parla con trasporto del grande salto che si appresta a compiere assieme a Patrizia, Salvatore e altri sette pazienti: diventare “facilitatori sociali” o in gergo tecnico esperti nel supporto tra pari.
«Vuole dire che io che ho problemi di salute mentale, con un bagaglio di esperienze di circa 20 anni, mi metto in gioco per aiutare altre persone che stanno male e non sanno cos’è la loro malattia mentale» spiega Michele. «Il facilitatore è un utente-non utente – aggiunge Patrizia, 52 anni, una vittima del mobbing, solare ed empatica -. È una persona che ne accompagna un’altra, spiegandogli il percorso. E lo può fare solo chi ci è già passato».
Immaginano già la faccia perplessa e la domanda dei lettori: malati che aiutano altri malati? Sì, proprio così. Perché loro, meglio di chiunque altro possono avvicinare chi soffre e aiutarlo ad aprirsi.
«Una persona che soffre di malattia mentale, qualsiasi essa sia, più acquisisce conoscenza e consapevolezza di quello che sta succedendo e più diventa padrone della sua vita. Questo è il modello che proponiamo – dice Maddalena Filippetti, responsabile e supervisore di Proviamociassieme per la Casa della carità -.
È elementare, ma per la malattia mentale è difficile, perché la persona tende a rimuovere. Prima di curarsi ha tutto un travaglio: vergogna, paura, il non sapere proprio che cosa sta succedendo».
Luca Mazzucchelli – www.psicologo-milano.it‘s insight:
Sono molto convinto che il cambiamento possa avvenire attraverso molteplici strade, e non sia sempre (o solo) frutto dell’incontro con un professionista a renderlo possibile.
I contesti non standardizzati, fuori dai setting classici insegnano proprio questo, e spesso sono proprio i pazienti a potere iniziare ad aiutare chi non vive bene il rapporto con la quotidianità.
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