“Qua salta fuori che siamo tutti matti!”
“Qua salta fuori che siamo tutti matti!”
“Qua salta fuori che siamo tutti matti!”
E’ il nostro istinto di sopravvivenza che ci fa temere le malattie
La paura delle malattie è una delle paure più classiche di noi uomini. Per forza temiamo le malattie: esse ostacolano il nostro benessere e quindi rendono più difficile il nostro adattamento alla realtà, talvolta addirittura mettendo a rischio la nostra sopravvivenza.
La paura di avere una malattia della mente è probabilmente ancora più profonda. Forse perché tendiamo a identificarci in modo molto più stretto con la nostra mente che non col nostro corpo: e allora se è la mente che si ammala abbiamo la sensazione che possa essere intaccata la nostra più intima essenza.
Forse è per questo che fra le domande che più spesso mi sento rivolgere ci sono quelle che riguardano la differenza fra sano e malato:
“Questo comportamento è normale?”
“Come faccio a capire se soffro di una malattia mentale?”
“Sono sano?”
“Non sarà che anche a me può capitare di…”
“Soffro forse di una fobia?”
Avete visto “A Beautiful Mind”?
Se lo avete visto, c’è un ottimo esempio di quel che sto cercando di spiegare. Per buona parte del film non è chiaro allo spettatore che il protagonista soffre di schizofrenia, perché i personaggi e le scene che – poi lo scopriamo – si svolgono solo nella sua mente vengono rappresentati nel film come se fossero reali. Solo a metà della storia ci rendiamo conto di avere visto una realtà che non c’è. Una trovata cinematografica geniale per farci condividere il disorientamento che prova il protagonista quando scopre di avere una malattia mentale: come lui, anche noi restiamo allibiti. “Ma se tutto sembrava così vero, così reale…”. Penso che buona parte dell’effetto scioccante dipenda dal fatto che questa scena tocca proprio questa fantasia, frequente in molte persone: la paura di soffrire di qualche malattia mentale di cui noi non siamo consapevoli.
Certi fatti di cronaca spingono al massimo queste paure
Questa è una osservazione che ho tratto dalla mia personale esperienza clinica: ogni volta che la cronaca racconta di qualche fatto clamoroso commesso da una persona che ha una qualunque forma di sofferenza psichica, le persone tendono a farsi più spesso del solito domande sulla loro salute mentale.
Se ad esempio i giornali raccontano di un delitto commesso da una persona “che soffriva di crisi depressive” (ah, questo vocabolo quanto va di moda adesso!), chi è in cura per depressione potrebbe preoccuparsi di poter compiere anch’egli qualcosa di simile. Non ho usato a caso l’esempio della depressione: perché questo vocabolo ultimamente sembra avere un certo fascino, tanto da essere usato dai mass media per descrivere ogni situazione di sofferenza psichica. E probabilmente con questa parola si finiscono per descrivere anche condizioni che con la reale depressione non hanno nulla a che spartire (anche se qui posso solo fare ipotesi, perché non conoscendo direttamente i casi clinici non posso essere certa della diagnosi).
Che fare di queste preoccupazioni?
Poiché il confine tra la cosiddetta normalità e la cosiddetta patologia è sfumato, tanto da non esserci una linea di demarcazione netta, chiedere se un certo comportamento sia normale o patologico non è un modo corretto di porre il problema.
Penso che il modo migliore di rispondere a queste domande sia di trasformarle. Quando ci viene da chiederci “Questo comportamento è normale?”, potremmo sostituire questa domanda con: “Questo modo di “funzionare” mi aiuta a vivere bene la mia vita? Mi permette di affrontare positivamente i compiti dell’esistenza? Mi aiuta o mi ostacola?”
Facciamo qualche esempio
E’ buona norma curare l’igiene personale per proteggersi dalle malattie. Nessuno si sognerebbe di definire malato chi si lava le mani prima di mangiare. Ma esistono delle persone che non possono trattenersi dal lavarsi le mani infinite volte al giorno, senza un motivo ragionevole. Esse possono capire che stanno facendo qualcosa di irrazionale, ma non possono fare a meno di farlo. Anche se la loro scrupolosità igienica li condiziona in modo incredibile, interferendo nella vita quotidiana e nei rapporti con gli altri. La patologia sta nel gesto del lavarsi le mani? Ovviamente no. Sta piuttosto nel contesto: se lavarsi prima di mangiare ha un senso perché mi agevola, mi aiuta a non ammalarmi, farlo di continuo e lasciare che questa abitudine interferisca nella mia vita quotidiana in modo drastico non lo ha. Ecco allora come lo stesso comportamento può apparire sia nel cosiddetto “sano” che nel “malato”.
Un altro esempio
E’ ormai assodato che curare l’alimentazione ed evitare gli eccessi aiuta ad avere una vita sana. Ma sappiamo tutti molto bene che un conto è limitare gli stravizi, tutt’altra cosa è fare la fame (fino talvolta a rischiare carenze alimentari se non, in casi estremi, la vita stessa). Dunque anche qui la differenza la fa non il comportamento in sé, ma il posto che quel comportamento occupa nella vita della persona: nel primo caso aiuta a vivere meglio, nel secondo peggiora la qualità della vita.
Occhio alle cantonate!
Ricordo ancora oggi, a distanza di anni, il caso di una ragazza che mi fu inviata come “sofferente di anoressia”. Il bello è che l’anoressia non c’entrava proprio per niente: aveva invece una (fortunatamente leggera) forma depressiva, ed era questo che la portava a sottoalimentarsi. Vedete come si può andare fuori strada se ci si limita a volere valutare un singolo comportamento, senza un contesto generale a cui riferirlo?
La paura delle malattie è una delle paure più classiche di noi uomini. Per forza temiamo le malattie: esse ostacolano il nostro benessere e quindi rendono più difficile il nostro adattamento alla realtà, talvolta addirittura mettendo a rischio la nostra sopravvivenza.
La paura di avere una malattia della mente è probabilmente ancora più profonda. Forse perché tendiamo a identificarci in modo molto più stretto con la nostra mente che non col nostro corpo: e allora se è la mente che si ammala abbiamo la sensazione che possa essere intaccata la nostra più intima essenza.
Forse è per questo che fra le domande che più spesso mi sento rivolgere ci sono quelle che riguardano la differenza fra sano e malato:
“Questo comportamento è normale?”
“Come faccio a capire se soffro di una malattia mentale?”
“Sono sano?”
“Non sarà che anche a me può capitare di…”
“Soffro forse di una fobia?”
Avete visto “A Beautiful Mind”?
Se lo avete visto, c’è un ottimo esempio di quel che sto cercando di spiegare. Per buona parte del film non è chiaro allo spettatore che il protagonista soffre di schizofrenia, perché i personaggi e le scene che – poi lo scopriamo – si svolgono solo nella sua mente vengono rappresentati nel film come se fossero reali. Solo a metà della storia ci rendiamo conto di avere visto una realtà che non c’è. Una trovata cinematografica geniale per farci condividere il disorientamento che prova il protagonista quando scopre di avere una malattia mentale: come lui, anche noi restiamo allibiti. “Ma se tutto sembrava così vero, così reale…”. Penso che buona parte dell’effetto scioccante dipenda dal fatto che questa scena tocca proprio questa fantasia, frequente in molte persone: la paura di soffrire di qualche malattia mentale di cui noi non siamo consapevoli.
Certi fatti di cronaca spingono al massimo queste paure
Questa è una osservazione che ho tratto dalla mia personale esperienza clinica: ogni volta che la cronaca racconta di qualche fatto clamoroso commesso da una persona che ha una qualunque forma di sofferenza psichica, le persone tendono a farsi più spesso del solito domande sulla loro salute mentale.
Se ad esempio i giornali raccontano di un delitto commesso da una persona “che soffriva di crisi depressive” (ah, questo vocabolo quanto va di moda adesso!), chi è in cura per depressione potrebbe preoccuparsi di poter compiere anch’egli qualcosa di simile. Non ho usato a caso l’esempio della depressione: perché questo vocabolo ultimamente sembra avere un certo fascino, tanto da essere usato dai mass media per descrivere ogni situazione di sofferenza psichica. E probabilmente con questa parola si finiscono per descrivere anche condizioni che con la reale depressione non hanno nulla a che spartire (anche se qui posso solo fare ipotesi, perché non conoscendo direttamente i casi clinici non posso essere certa della diagnosi).
Che fare di queste preoccupazioni?
Poiché il confine tra la cosiddetta normalità e la cosiddetta patologia è sfumato, tanto da non esserci una linea di demarcazione netta, chiedere se un certo comportamento sia normale o patologico non è un modo corretto di porre il problema.
Penso che il modo migliore di rispondere a queste domande sia di trasformarle. Quando ci viene da chiederci “Questo comportamento è normale?”, potremmo sostituire questa domanda con: “Questo modo di “funzionare” mi aiuta a vivere bene la mia vita? Mi permette di affrontare positivamente i compiti dell’esistenza? Mi aiuta o mi ostacola?”
Facciamo qualche esempio
E’ buona norma curare l’igiene personale per proteggersi dalle malattie. Nessuno si sognerebbe di definire malato chi si lava le mani prima di mangiare. Ma esistono delle persone che non possono trattenersi dal lavarsi le mani infinite volte al giorno, senza un motivo ragionevole. Esse possono capire che stanno facendo qualcosa di irrazionale, ma non possono fare a meno di farlo. Anche se la loro scrupolosità igienica li condiziona in modo incredibile, interferendo nella vita quotidiana e nei rapporti con gli altri. La patologia sta nel gesto del lavarsi le mani? Ovviamente no. Sta piuttosto nel contesto: se lavarsi prima di mangiare ha un senso perché mi agevola, mi aiuta a non ammalarmi, farlo di continuo e lasciare che questa abitudine interferisca nella mia vita quotidiana in modo drastico non lo ha. Ecco allora come lo stesso comportamento può apparire sia nel cosiddetto “sano” che nel “malato”.
Un altro esempio
E’ ormai assodato che curare l’alimentazione ed evitare gli eccessi aiuta ad avere una vita sana. Ma sappiamo tutti molto bene che un conto è limitare gli stravizi, tutt’altra cosa è fare la fame (fino talvolta a rischiare carenze alimentari se non, in casi estremi, la vita stessa). Dunque anche qui la differenza la fa non il comportamento in sé, ma il posto che quel comportamento occupa nella vita della persona: nel primo caso aiuta a vivere meglio, nel secondo peggiora la qualità della vita.
Occhio alle cantonate!
Ricordo ancora oggi, a distanza di anni, il caso di una ragazza che mi fu inviata come “sofferente di anoressia”. Il bello è che l’anoressia non c’entrava proprio per niente: aveva invece una (fortunatamente leggera) forma depressiva, ed era questo che la portava a sottoalimentarsi. Vedete come si può andare fuori strada se ci si limita a volere valutare un singolo comportamento, senza un contesto generale a cui riferirlo?
Per gentile concessione della Dott.ssa Silvia Bianconcini www.psicologia-imola.it