Come possiamo aiutare i bambini ad affrontare e a superare i periodi di crisi?
Inventare un luogo, offrire un tempo. Un luogo per l’ascolto e un tempo per raccontarsi.Di fronte ad un bambino arrabbiato, spaventato, triste, aggressivo, quando l’ansia spinge a dire migliaia e migliaia di parole o a pensare e sperimentare innumerevoli strategie e soluzioni al problema, potremmo provare a muoverci in questa direzione.
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Spesso invece nella nostra relazione quotidiana con i bambini sottovalutiamo la dimensione emotiva, soprattutto quella della cosiddette emozioni “negative” (rabbia, paura, tristezza, …), dimenticando che ogni esperienza è ricca di emozioni e che quello che “si muove nella pancia” è a volte più determinante di quello che “passa per la testa”.Valorizzare questa dimensione e risvegliare capacità come l’ascolto di sé stesso e dell’altro o il racconto (attraverso tutti i linguaggi verbali e non di cui i bambini sono portatori) di sé e delle proprie esperienze sono obiettivi fondamentali in ogni progetto educativo.
Come imparare allora a gestire la propria emotività e come consentire ai bambini di esprimere queste emozioni “forti” senza farsi male? Spesso infatti questa sfera emozionale è un problema per i bambini ed altrettanto spesso lo è per i genitori.
Perché? Perché sono emozioni che “fanno paura”: sono meno controllabili, meno prevedibili, più istintive e primordiali. Ma sono emozioni “universali”: prendendone atto si può vivere serenamente ed in armonia con sé stessi e gli altri.
In questo articolo, vorrei parlarvi di una metodologia molto interessante per affrontare in maniera diversa il tema della disabilità.
Normalmente, quando nasce un figlio con disabilità grave o medio grave, c’è un’iniziale paura dei genitori di fronte al fantasma della malattia con la quale dovranno convivere tutta la vita. In seguito, però, grazie alla conoscenza del nuovo arrivato e all’aiuto fornito dagli operatori esterni ed esperti del mestiere, i famigliari imparano ad accettare questa condizione e, di solito, iniziano a trovare una serie di lati positivi di fronte all’insopportabile idea di aver generato un figlio con problemi.
Il secondo passo, però, è quello di far accettare il bambino dalla società, prima tra parenti e amici, poi durante tutto il percorso scolastico. Come si può fare a considerare “persona” un individuo che, ad esempio, a mala pena sta seduto in carrozzina, che non parla e fatica ad esprimersi anche mediante gestualità? Con questo approccio, il Dott. Riziero Zucchi ha ideato una metodologia che, se riuscirà a diffondersi in modo capillare, produrrà sicuramente dei grossi vantaggi da molti punti di vista.
Ogni disabilità ha un nome che la definisce e la classifica, ma siamo sicuri che due bambini autistici siano esattamente uguali? In fondo, le parole sono simboli convenzionali, bisogna passare dalla parola alla persona e la metodologia descritta qui permette questo passaggio. Non basta fermarsi alla superficie della parola “autistico”, ma bisogna andare più in profondità e conoscere quel bambino che, di certo, pur essendo autistico, avrà le sue abitudini e il suo particolare carattere.