Nel precedente articolo ho iniziato a spiegarvi qualcosa di forse un po’ teorico sulla pedagogia dei genitori, ora entreremo più nel pratico e cercheremo di capire ancor meglio l’utilità di questa metodologia.
I figli sono conosciuti bene dai loro genitori, ancora di più se sono in situazione di disabilità. E’ vero che queste persone vivono incontrando medici, psicologi e assistenti sociali, ma il loro percorso non può essere deciso solo da figure sanitarie o, in caso della vita a scuola, dagli insegnanti di sostegno, ma dev’essere concordato confrontandosi coi genitori. Le figure esterne hanno studiato, ma anche madri e padri hanno “studiato”, e lo hanno fatto tutti i giorni, stando a contatto coi loro ragazzi da quando sono nati. E’ importante l’alleanza tra famigliari ed educatori per non far sentire soli gli educatori stessi e per far sì che i famigliari sappiano cosa succede fuori casa. Si stipula una sorta di patto educativo in modo che si sia tutti alla pari: gli operatori studiano, ma anche le famiglie hanno qualcosa da dare, il sapere dell’esperienza. Una persona analfabeta, ad esempio, può essere bravissima ad allevare animali e a fare vino, ma se facesse un esame universitario sarebbe probabilmente considerato un ignorante. Il sapere dell’esperienza è quotidiano, concreto, non deve passare per forza attraverso la teoria. Le mamme hanno un sapere prezioso: aiutano i loro figli a trasformare il linguaggio non verbale in verbale non grazie al sapere teorico, ma all’istinto. Chi conosce il campo? Il contadino che lo cura da anni o l’agronomo che ha studiato tanti campi? Entrambi: il contadino deve rifarsi all’agronomo e viceversa. I contadini sono i famigliari perché conoscono bene il loro congiunto vivendoci insieme quotidianamente, l’agronomo è l’educatore.
In questo articolo, vorrei parlarvi di una metodologia molto interessante per affrontare in maniera diversa il tema della disabilità.
Normalmente, quando nasce un figlio con disabilità grave o medio grave, c’è un’iniziale paura dei genitori di fronte al fantasma della malattia con la quale dovranno convivere tutta la vita. In seguito, però, grazie alla conoscenza del nuovo arrivato e all’aiuto fornito dagli operatori esterni ed esperti del mestiere, i famigliari imparano ad accettare questa condizione e, di solito, iniziano a trovare una serie di lati positivi di fronte all’insopportabile idea di aver generato un figlio con problemi.
Il secondo passo, però, è quello di far accettare il bambino dalla società, prima tra parenti e amici, poi durante tutto il percorso scolastico. Come si può fare a considerare “persona” un individuo che, ad esempio, a mala pena sta seduto in carrozzina, che non parla e fatica ad esprimersi anche mediante gestualità? Con questo approccio, il Dott. Riziero Zucchi ha ideato una metodologia che, se riuscirà a diffondersi in modo capillare, produrrà sicuramente dei grossi vantaggi da molti punti di vista.
Ogni disabilità ha un nome che la definisce e la classifica, ma siamo sicuri che due bambini autistici siano esattamente uguali? In fondo, le parole sono simboli convenzionali, bisogna passare dalla parola alla persona e la metodologia descritta qui permette questo passaggio. Non basta fermarsi alla superficie della parola “autistico”, ma bisogna andare più in profondità e conoscere quel bambino che, di certo, pur essendo autistico, avrà le sue abitudini e il suo particolare carattere.