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Se la tecnologia prende il posto dello psicologo…

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Se la tecnologia prende il posto dello psicologo…

psicologia tecnologiaQuando la tecnologia si sovrappone alla psicologia…

Nell’ultimo decennio la tecnologia si è sviluppata ad un ritmo cosi rapido da risultare inesorabilmente onnipresente nella vita quotidiana della quasi totalità degli uomini.
Non è sorprendente che essa sia diventata una necessità nella pratica della medicina e che recentemente lo stia diventando anche nella pratica della psicoterapia.
Infatti, telemedicina e innovazioni telematiche sono diventate sempre più popolari nella pratica psicoterapeutica. Ne sono esempi l’uso della terapia virtuale, delle mail e del rapporto interattivo virtuale tra paziente e utente. La tecnologia ha la potenzialità di aumentare i risultati positivi nel trattamento e di rendere più sicuri alcuni contesti di lavoro cosiddetti “pericolosi” , ad esempio il carcere.

Se da una parte, quindi, il binomio tecnologia-psicologia può annoverare parecchi punti di forza, non è da sottovalutare l’altra faccia della medaglia di tale sovrapposizione.

A questo proposito ci sembra importante analizzare e riflettere sull’articolo di Mark Harwood, scritto con la collaborazione di studiosi e psicologi dell’Università di Palo Alto, e pubblicato dall’American Psychological Association, che a fine 2011 ha dedicato un numero della sua rivista interamente all’argomento online.

Gli autori partono da alcune interessanti domande:
Internet e telefoni possono essere usati come medium per la terapia a distanza? Possono sostituire la terapia faccia a faccia o possono solo potenziare l’efficacia della professionalità del terapeuta?
Prima di tutto i vantaggi sui quali si sofferma l’equipe di Palo Alto:

  • Indubbiamente questi strumenti ammortizzano tempi e costi. Si eliminano, infatti, le barriere geografiche e le difficoltà associate agli spostamenti, scegliendo un professionista che dà fiducia a prescindere dal luogo di residenza, perché sempre comunque raggiungibile: l’utente, infatti, può avere accesso immediato a specialisti del problema, anche di aree geograficamente lontane.
  • La tecnologia della realtà virtuale, inoltre, può inoltre portare successi nel caso di trattamenti con personalità più problematiche, ad esempio con clienti violenti, a rischio suicidario, tossici. E’ utile anche nel trattamento iniziale di disturbi che, per loro natura, impediscono alla persona di uscire – come nei casi di attacchi di panico e agorafobia-.

Queste caratteristiche, a nostro avviso, sono valide non solo per gli strumenti del virtuale, ma anche per chi opera attraverso la webcam o comunque a distanza.

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Passiamo ora ai punti deboli individuati da Harwood:

  • L’introduzione del medium modifica la struttura dell’interazione e obbliga i soggetti ad adattarsi alla nuova situazione, rimuovendo dall’interazione il sistema corporeo e i significati che questo porta con sé. L’uso di servizi di videoconferenza ovvierebbe solo in minima percentuale tale limite poiché la telecamera della webcam è sempre manipolata dal paziente e il terapeuta potrebbe ignorare così segnali importanti.

Il punto di vista di Harwood parrebbe soffermarsi bene su una faccia della medaglia (la complessità di un setting che cambia) ma meno sull’altra: andare incontro all’utente in un contesto dove si senta maggiormente a sua agio. Certo facendo a meno di alcuni segnali corporei preziosissimi ma a nostro avviso non sempre indispensabili per promuovere il cambiamento nella persona

  • I principali dilemmi secondo gli studiosi di Palo Alto – e che ci trovano allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica in sostanziale accordo – riguardano i rischi di sicurezza, l’integrità dei dati raccolti (che devono essere tenuti lontani da occhi indiscreti), la mancanza di informazioni visive e sul comportamento non verbale del paziente.
  • Harwood cita poi un ulteriore elemento problematico, ossia il fatto che la fornitura di professionisti su Internet sia molto ampia, ma la tecnologia non tuteli il cliente in merito alla competenza e alla professionalità del terapeuta a cui si affida.

Questa osservazione, corretta e a oggi difficilmente falsificabile, non ci pare tuttavia molto diversa se riportata fuori dal mondo online, dove sono numerosi gli individui che si spacciano per finti psicologi o professionisti di altre branche prendendosi gioco dei loro ignari utenti.

Le conclusioni cui giunge Harwood, con le quali non si può che concordare, sono che molte delle complessità etiche e terapeutiche implicate nell’utilizzo della tecnologia in psicologia possono essere ovviate quando la tecnologia non si sostituisca completamente al processo terapeutico faccia a faccia, ma ne sia solamente un complemento, un ausilio.
Le procedure di telemedicina, se non affiancate al classico iter terapeutico, possono semplificare – e sviluppare non senza errori e congetture – il processo di trattamento tralasciando alcune fonti di informazioni invisibili alle nuove tecnologie (importanza dei segnali sociali non verbali), ma talvolta fondamentali per prendere decisioni positive ed efficaci.
È pertanto più vantaggioso che lo psicologo rimanga un clinico e non un tecnico che si mette al servizio delle tecnologie. Senza tuttavia restare fuori dall’utilizzo di alcuni strumenti che, se sfruttati nella corretta direzione, possono dare una marcia in più alla nostra efficienza.

Lisa Preda

Luca Mazzucchelli

 

 

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