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La violenza psicologica in famiglia – seconda parte

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Psicologia giuridica

La violenza psicologica in famiglia – seconda parte

Lo scorso mese abbiamo affrontato la violenza in famiglia, lasciando in sospeso la questione delle due grandi categorie della violenza psicologica.

Riprendiamo dal punto in cui ci siamo lasciati.

Come avevo detto, la violenza psicologica si può classificare in due categorie: orizzontale e verticale.

La violenza “orizzontale” riguarda i pari e, quindi, le situazioni di abuso emotivo tra partners conviventi o ex-partners. Una porzione consistente della violenza domestica, infatti, è rappresentata dalla violenza nella coppia.

Secondo l’OMS, l’abuso emotivo nell’ambito di una relazione intima si caratterizza da:

–          Essere insultati o sentirsi male circa se stessi;

–          Essere sminuiti o umiliati di fronte ad altre persone;

–          Il perpetuatore fa delle cose per terrorizzare o intimidire;

–          Il perpetuatore minaccia di ferire/colpire.

La relazione tra partners, quando si caratterizza nei termini di violenza psicologica, più frequentemente vede un uomo nella posizione di abusante e una donna in quella di vittima. In queste circostanze, le donne sono oggetto di abusi psicologici come intimidazioni, costanti forme di umiliazione e sminuizione; ma anche veri e propri comportamenti di controllo, quali l’essere isolate dalla propria famiglia o dagli amici, l’esser controllate nei movimenti, etc.

La violenza psicologica, nell’ambito di una relazione coniugale o sentimentale, è un fenomeno trasversale: non è, quindi, riconducibile a specifici contesti familiari. Può insorgere in qualsiasi momento nella relazione: a volte si presenta subito, altre volte si verifica in concomitanza alla nascita di un figlio, altre ancora a seguito della separazione dei due partners. Con ciò, si vuole sottolineare come la dimensione della violenza psicologica debba essere considerata secondo una logica processuale: si costruisce nel tempo ed entrambi gli attori, in qualche modo, contribuiscono al mantenimento di questo tipo di rapporto. Gli aspetti che possono contribuire a tale mantenimento sono:

–          Negativo concetto di sé;

–          Fiducia che il partner possa cambiare;

–          Paura di perdere il sostentamento economico offerto dal partner;

–          Presenza di figli (specie se piccoli);

–          Concezione negativa della separazione;

–          Paura di non essere in grado di vivere da sole.

Un aspetto importante da considerare riguarda le conseguenze. Queste vanno valutate sia nei confronti della vittima diretta della violenza, sia nei confronti delle vittime indirette (generalmente i figli). In quest’ultimo caso, si parla di violenza assistita.

L’essere vittima di un abuso emotivo, all’interno di una relazione intima, aumenta la probabilità di:

–          Uso di alcool o sostanze stupefacenti;

–          Depressione e ansia;

–          Disturbi dell’alimentazione e/o del sonno;

–          Sentimenti di vergogna e colpa;

–          Fobie;

–          Disistimia;

–          Somatizzazioni;

–          Disturbo post traumatico da stress;

–          Tentato suicidio o suicidio.

La messa in evidenza di questi elementi, però, non deve essere fraintesa: molti studi, infatti, indicano che vi è una quota significativa di donne che non rimangono vittima passiva, ma organizza strategie attive per preservare se stesse e gli eventuali figli.

Un’altra forma particolarmente seria di violenza psicologica, che tendenzialmente caratterizza le relazioni tra gli ex-partners, è lo stalking, o Sindrome delle molestie assillanti. Si tratta di una vera e propria forma di persecuzione, più frequentemente di un uomo nei confronti di una donna (anche se non mancano casi opposti), che, di fatto, limita la libertà personale di un individuo. La finalità principale dello stalker è quella di agire il “possesso” della vittima, limitandone la libertà.

Da un punto di vista comportamentale, tale persecuzione si realizza attraverso telefonate mute, lettere anonime, pedinamenti, appostamenti, minacce, etc.

Gli atti più comuni di stalking sono:

–          Atti vandalici nella casa della vittima;

–          Appropriazione dela posta della vittima;

–          Deposizione, davanti casa o sul posto di lavoro della vittima, di oggetti o fiori non graditi;

–          Osservazione della vittima da lontano, pedinamenti della vittima, furto di oggetti della vittima;

–          Molestie telefoniche o tramite lettere;

–          Danneggiamento o incendio dell’auto della vittima.

Questo tipo di violenza, per essere definita stalking, deve persistere per almeno 4 settimane consecutive, e per un numero di almeno dieci manifestazioni. L’esordio di tali comportamenti, spesso, viene frainteso dalla vittima, in quanto ritenuto un modo per recuperare un rapporto interrotto, o una manifestazione di gelosia o di non rassegnazione alla fine della relazione sentimentale.

L’impatto della persecuzione sulla vittima implica, tendenzialmente:

–          Cambiamenti nel modo di vivere;

–          Diminuzione delle attività sociali

–          Cambio o cessazione dell’abituale attività lavorativa;

–          Cambio di residenza.

La genesi della dinamica dello stalking risiederebbe in una lettura alterata della relazione, nonché in una distorta comunicazione messa in atto dal persecutore. Nella relazione sono alterati il significato e l’intensità dei comportamenti agiti. L’aspetto prevalentemente problematico dello stalker sembra la difficoltà ad affrontare, emotivamente, la separazione: la fase finale di una relazione sentimentale, infatti, viene vissuta come una perdita profonda, fonte di destabilizzazione e di grave incertezza per il futuro.

Per quanto riguarda le violenze psicologiche “verticali”, invece, queste riguardano le relazioni familiari che implicano un “salto” generazionale, come, ad esempio, la relazione genitore-figlio. Una prima definizione circa l’abuso psicologico ai danni di un bambino o di un adolescente, la dobbiamo all’International Conference on Psychological Abuse of Child and Youth (1983), che include atti quali:

–          Rifiutare: sminuire, umiliare, e altre forme non fisiche di trattamento apertamente non ostile o respingente; mortificare e/o ridicolizzare il bambino quando mostra normali emozioni quali la commozione, l’angoscia o il dolore; scegliere un bambino per criticarlo e ferirlo, per fargli eseguire la maggior parte delle faccende di casa o per assegnargli minori gratificazioni; umiliazione pubblica;

–          Terrorizzare: esporre un bambino a circostanze imprevedibili o caotiche; esporre un bambino a situazioni pericolose; proporre aspettative rigide o irrealistiche con minaccia di abbandono, di percosse o di pericolo qualora non venissero soddisfatte; minacciare o perpetrare violenza contro il bambino; minacciare o perpetrare violenza contro persone o oggetti amati dal bambino;

–          Isolare: isolare il bambino o imporgli limitazioni irragionevoli alla sua libertà di movimento nel suo ambiente di vita; imporre irragionevoli limitazioni o restrizioni alle interazioni sociali con i coetanei, o adulti nella comunità di appartenenza;

–          Sfruttare/corrompere: mostrare, consentire o incoraggiare comportamenti antisociali; mostrare, consentire o incoraggiare comportamenti evolutivamente inappropriati; incoraggiare o forzare l’abbandono di un’autonomia evolutivamente appropriata attraverso un estremo coinvolgimento, o l’intrusività, o il dominio; restringere o interferire con lo sviluppo cognitivo;

–          Ignorare: essere distaccati e freddi per incapacità o mancanza di motivazione; interagire solo se assolutamente necessario; insufficiente espressione di affetto, cure e amore per il bambino;

–          Trascuratezza della salute fisica, mentale ed educativa: ignorare i bisogni, essere inadeguati o rifiutare di consentire o provvedere ad un trattamento per seri problemi emozionali o comportamentali del bambino; ignorare i bisogni, essere inadeguati o rifiutare di consentire o di provverede un trattamento per seri problemi o bisogni di salute fisica del bambino; ignorare i bisogni, essere inadeguati o rifiutare di consentire o di provvedere un trattamento per seri problemi o bisogni educativi del bambino.

Forme evidenti di maltrattamento psicologico sono:

–          Aggressioni verbali tese a squalificare, svilire le caratteristiche e le capacità del bambino;

–          Atteggiamenti di rifiuto, esclusione e discriminazione;

–          Nutrire aspettative troppo elevate nei confronti del bambino, che lo costringono a confrontarsi con ripetuti fallimenti e continue mortificazioni.

Maltrattare psicologicamente un minore significa anche minacciare verbalmente la sua incolumità fisica, isolarlo coattivamente dai coetanei e da altre forme di socializzazione, privarlo di tutte quelle esperienze sensoriali ed emotive indispensabili per un sano sviluppo psichico.

Allo stesso modo, può risultare dannosa l’indifferenza affettiva mostrata dai genitori: l’assenza di considerazione e di attenzione necessarie ad attestargli che possiede un valore e che merita affetto.

L’OMS, nella sua definizione di abuso emotivo nei confronti di un bambino o di un adolescente, include “la mancanza di un caregiver a provvedere ad un ambiente appropriato e supportivo, e include atti che hanno un effetto avverso sulla salute emotiva e lo sviluppo di un bambino. Tali atti includono restringere i movimenti del bambino, denigrare, ridicolizzare, minacce e intimidazioni, discriminazione, rifiuto ed altre forme non fisiche di trattamento ostile”.

Queste forme di carenza delle relazioni genitoriali possono impedire che si sviluppino degli adeguati comportamenti di attaccamento e compromettere una sana formazione dell’autostima e delle competenze sociali del bambino, e, più in generale, pregiudicare il suo sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo.

È palese come uno stesso comportamento nocivo possa avere un impatto diverso sul bambino a seconda della fase evolutiva che sta attraversando e, quindi, del grado di vulnerabilità che, in relazione a quel comportamento e alle risorse possedute in quel momento, egli potrà presentare. Ma è certo che, al di là dell’intensità di ogni singolo atto maltrattante, ciò che incide sulla compromissione o meno del benessere psichico del bambino è la frequenza e la regolarità con il quale esso si presenta e, quindi, l’eventualità che il maltrattamento psicologico costituisca un modello comportamentale parentale prevalente all’interno della relazione con il figlio.

Di fatto, l’impatto, il danno arrecato da questo tipo di abuso può organizzarsi in:

–          Disturbi della condotta alimentare e sfinterica;

–          Disturbi del linguaggio;

–          Disturbi del sonno;

–          Sintomi psiconevrotici;

–          Nei casi più gravi, tentativi di suicidio.

Inoltre, le disfunzioni delle relazioni genitoriali possono diventare violenza psicologica ed emotiva. Pensiamo all’accudimento e, quindi, a tutte quelle forme di patologie relazionali che esitano in una compromissione della cura del bambino. A questo proposito, il bambino può essere inserito in una relazione genitoriale caratterizzata da eccesso di cure (ipercura, che può sfociare in forme patologiche quali la Sindrome di Munchausen per procura, medical shopping e chemical abuse).

Sul fronte opposto si colloca l’incuria, ovvero una carenza di cure. In questi casi, i genitori non si prendono sufficientemente cura dei propri figli, esponendoli a pericoli, malattie e negligenze di vario tipo. A causa della trascuratezza e del disinteresse dei genitori, questi bambini sono maggiormente esposti a pericoli e incorrono spesso in incidenti domestici, che, il più delle volte, sono dovuti proprio alla mancanza di vigilanza e attenzione da parte dell’adulto. Abbandonati a loro stessi, questi bambini possono incorrere in abitudini dannose quali l’uso di tabacco, alcool e sostanze stupefacenti. Non hanno la possibilità di sperimentare buone occasioni di socializzazione e, quindi, sono più a rischio di sviluppare problemi della condotta e antisociali. Frequentano poco la scuola o vengono ipostimolati rispetto alla performance scolastica, dimostrando, quindi, difficoltà di apprendimento.

In ultimo, sempre rispetto alle disfunzioni genitoriali in termini di cura, è possibile anche che il bambino sia inserito in una situazione di discuria. Essa di verifica quando i genitori, pur provvedendo alle cure del proprio figlio, lo fanno in modo inadeguato, non rispettando le esigenze evolutive del bambino e fornendo cure che non corrispondono a tempi, modi e qualità a quella particolare fase della crescita.

Un’altra forma particolarmente grave di abuso emotivo e psicologico ai danni di un bambino o di un adolescente è quella forma di disfunzione della relazione genitoriale che viene definita Sindrome di Alienazione Genitoriale (Parental Alienation Syndrome- PAS). Essa può essere considerata una vera e propria forma di abuso nei confronti di un bambino.

Cecilia Pecchioli

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